Ma guarda chi torna
in tavola: Il lardo

In questi giorni a Lariofiere di Erba, si apre Ristorexpo, una delle manifestazioni più importanti e di certo la più gustosa ed epicurea del calendario. Tempi addietro avevo suggerito di chiamarla “La pacciata”, ricordando Gianni Brera, ma non mi hanno ascoltato. Fa niente. Questa volta però, gli organizzatori un po’ sul gaudente e sul grasso ci sono andati. Sui grandi manifesti color arancione che, in mezza Lombardia e oltre, annunciano l’evento è scritto “Ristorexpo, lardo ai giovani”. Sì proprio “lardo”. È ovvio che la stragrande maggioranza del popolo (alcuni si sono rivolti pure a me con tono sarcastico) hanno preso questo “lardo”, come un errore bello e buono: «Guarda questi qui di Lariofiere che hanno sbagliato: “lardo” invece di “largo ai giovani”».

Invece non vi è errore alcuno: questo “lardo ai giovani” è stato voluto, proprio pensando al maiale e a uno dei suoi più grassi prodotti. Perché ai giovani? Perché, come mi hanno spiegato, gli organizzatori, questa volta hanno puntato sulla tradizione. Anche il futuro della gastronomia è delle nuove generazioni. E’ cosa sacrosanta che questi giovani però devono conoscere i valori della tradizione, quei prodotti che sono stati alla base della cucina contadina. A me pare che questo sia un ragionamento giusto, collocato lì come barriera a tutte quelle manie gastronomiche che arrivando da altri paesi, dagli Stati Uniti in particolare, stanno forse stravolgendo un po’ la nostra cultura gastronomica e per quanto riguarda me, anche i miei gust antiche.

Giusto quindi puntare sul lardo come esempio di “mangiari” della nostra memoria. Il lardo è uno dei principi del condimento. Una bella cucchiaiata di lardo insaporiva con generosità grande quell’insieme di vivande povere che la “resgiura” riusciva a combinare tra loro onde porre sul desco un piatto dignitoso.

Mi ricordo mia nonna contadina, ogni giorno, nel primo pomeriggio dentro la grande cucina in ombra, che si metteva a preparare il minestrone per la sera. Prendeva un bel pezzo di lardo, bello bianco con qualche leggera venatura rosa e lo poneva dentro l’incavo che , con il grande uso si era formato nell’asse di legno. Vi spruzzava su una certa abbondanza di rametti di prezzemolo appena preso nell’orto (con i prodotti che costavano niente le “resgiure” abbondavano sempre), uno spicchio d’aglio e poi prendeva la “mezzaluna” e riduceva tutto in una bella poltiglia. Diceva contenta a noi nipotini che la guardavamo: «’Na bela pestada da lard, l’è ul bôn da la minestra».

Avvolta nel lardo era anche la faraona arrosto che , come simbolo delle trasgressione e di sfida alla miseria, andava sul fuoco nei giorni di Natale.

Non ha inventato niente Venanzio nel suo celebre ristorante sulle Alpi Apuane, tra le cave del famoso marmo bianco, dove offre a schiere di americani il doppiamente salato (per natura e come costo) lardo di Colonnata, “maturato” negli anfratti della roccia., secoli fa celebrata dall’arte di Michelangelo, ora curiosamente ridotta a contenitore di prodotti gastronomici. Il lardo infatti è sempre stato una ghiottoneria assai ambita. Il lardo si mangiava a pezzetti. La mattina nelle cascine se ne tagliava qualche fettina che, infilata su un bastoncino, si avvicinava alla fiamma del camino. Appena il lardo lacrimava lo si gustava con il pane, oppure con qualche fetta di polenta fredda. Questa era, talvolta, la colazione del mattino: accompagnata con un “gött”, di vino nostrano, meglio ancora di Manduria, se c’era. I contadini davano il lardo anche alle bestie quando soffrivano di infiammazione.

Certo il lardo è anche un grasso e quindi, ora con tutto quel che mangiamo, come sostengono gli ossessionati medici e dietologi che ogni giorno ci braccano. Penso quindi che a Ristorexpo insegnino anche come procedere a una corretta consacrazione del lardo e di altri prodotti della nostra bella tradizione culinaria.

© RIPRODUZIONE RISERVATA