Manovre disperate
in cerca di soldi

La manovrina approvata l’altro ieri dal Governo è solo un antipasto di quel che ci aspetta sul piano dei conti pubblici da qui alla fine dell’anno e nel prossimo triennio.

Grazie a questa correzione siamo rientrati nel deficit del 3 per cento richiestoci da Bruxelles e possiamo avviarci al semestre di presidenza europeo con la patente di Stato membro virtuoso. Sfumato il solito aumento sulle accise della benzina, gli italiani non ne risentiranno, almeno direttamente, poiché la copertura della manovrina prevede tagli agli enti locali e ai ministeri (esclusi Sanità, Istruzione e Ricerca) e una tranche di mezzo miliardo di dismissioni immobiliari liquidate e finite alla Cassa depositi e prestiti, la società di controllo pubblico che gestisce i conti correnti postali. Spiace però veder penalizzati i Comuni cosiddetti “virtuosi”.

Resta da capire dove il governo prenderà i 330 milioni per il rifinanziamento della Cassa di integrazione guadagni in deroga ed è inquietante il rinvio del finanziamento di 35 milioni di euro della social card, destinato ai cittadini meno abbienti. Pochi soldi, ma importanti per coloro a cui è destinata la carta acquisti inventata da Tremonti.

Ma come dicevamo le scadenze che ci attendono sono molto più delicate e cruciali per un Paese che ha una pressione fiscale complessiva pari al 43 per cento sul Pil. Tra qualche giorno si dovrebbero reperire i fondi necessari a coprire la seconda rata dell’Imu per la prima casa. Quasi due miliardi e mezzo: dove li prenderà il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni? Da quale cilindro spunteranno fuori? Si metteranno altre tasse per togliere una tassa?

Superato questo ostacolo, ecco che si profila la madre di tutte le manovre: quella legge di stabilità che dovrà essere approvata dalle camere entro Natale e che passerà sotto la lente dell’Unione europea.

Questa “manovrona” dovrebbe accompagnarci per un triennio, fino al 2017 e prevede come piatto forte il taglio al cuneo fiscale, ovvero la differenza tra il costo del lavoro per l’impresa e quel che entra nelle tasche del dipendente con la busta paga. Oltre il settanta per cento delle piccole e medie imprese, che rappresentano il nocciolo duro dell’Azienda Italia, hanno dichiarato assolutamente necessario il provvedimento per reggere il ritmo della competitività.

Il premier Enrico Letta ha promesso solennemente che agirà sulla defiscalizzazione del costo del lavoro negli incontri con le parti sociali, dalle imprese ai sindacati. Naturalmente intorno al taglio del cuneo si è svolta una sorta di tira e molla. Il presidente di Confindustria Squinzi ha chiesto 10 miliardi di sgravi subito, i sindacati restano più prudenti, mentre il governo offre sul piatto 4 miliardi e mezzo all’anno. Da dove li prenderà? Da uno dei tre modi con cui uno Stato da sempre può reperire risorse: risparmiando sulle sue spese (gli altri due sono il debito e le tasse, a meno che non si voglia stampare moneta). Sta quindi per partire l’ennesima “spending review”, con i tagli alle spese della pubblica amministrazione. Squinzi giudica fattibile che si riesca a tagliare la spesa pubblica per un ulteriore due per cento. Il barile è stato ampiamente raschiato a fondo con il governo Monti ma un’amministrazione come l’Italia presenta sempre sorprese. O almeno si spera.

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