Se il gioco è quello del cerino, prima o poi capiterà che qualcuno si ritrovi con i polpastrelli bruciati. E, a questo giro, le dita in questione potrebbero essere le nostre. Nella gara degli egoismi di fronte a un esodo che certo non si risolve con gli slogan, Como rischia seriamente di ritrovarsi a dover gestire un’emergenza senza precedenti. Le avvisaglie sono lì da vedere: da alcuni giorni, alla stazione San Giovanni, decine di migranti attendono di poter tentare la fortuna e raggiungere il Canton Ticino per poi poter proseguire il loro viaggio alla volta della Germania. Intanto, a quaranta chilometri da qui, a centinaia - se non migliaia - sono pronti a raggiungerli. Nell’Europa che predilige i muri (quelli fisici realizzati al Brennero ma anche quelli invisibili e non per questo meno impenetrabili al confine con la Francia) a un piano condiviso e di più ampio respiro che permetta di affrontare l’emergenza nel modo meno traumatico possibile, la sola rotta percorribile per il Nord Europa resta quella che passa da Como.
Ma anche qui i muri ci sono e si sentono, soprattutto negli ultimi giorni, da quando cioè è stato chiaro alle autorità svizzere che il flusso di migranti stava per aumentare esponenzialmente e i controlli sono aumentati, così come i respingimenti. La nostra città rischia di ripiombare a 17 anni fa, al primo esodo di massa del Sud del mondo verso il Nord, ai gruppi di stranieri pronti a tutto per poter varcare il confine e proseguire il proprio viaggio, anche a mettersi nelle mani di passatori senza scrupoli.
La foto dei ragazzi e delle ragazze sbattuti a terra in un bivacco che diventa corsa a ostacoli per i tanti turisti in arrivo e in partenza da San Giovanni, è l’immagine perfetta della sconfitta della politica. Non già e non tanto degli odiati politici, perché non serve a nulla giocare al tiro a segno solleticando luoghi comuni tanto in voga da qualche anno a questa parte, quanto della loro capacità di predisporre un progetto serio, di far squadra, di far uscire l’Italia dall’isolamento, di non trasformare ogni evento in un’emergenza. L’immagine plastica di quel fallimento, oggi, l’abbiamo in casa.
Da qualche tempo a questa parte la parola d’ordine, complice anche la malsana abitudine di qualche politico di soffiare come un mantice sul fuoco delle polemiche, è nascondere il problema. Le informazioni sulla situazione dei profughi in città sono difficili da trovare. In pochi parlano. Quasi nessuno fornisce numeri certi. Anche per ricostruire i costi dell’accoglienza siamo stati costretti a imbastire un’inchiesta giornalistica tutt’altro che agevole, nei mesi scorsi. Un silenzio dettato dalla speranza di non creare allarme sociale, che però di fronte alle scene viste ieri in stazione suona stonato.
E allora se da un lato corre l’obbligo di ricordare le parole di Papa Francesco, pronunciate durante l’Angelus domenicale: «Anche il migrante che tutti vogliono cacciare è mio prossimo», ha detto Bergoglio invitando a «fare opere buone, non solo dire parole che vanno al vento», dall’altro è doveroso chiedere a chi può farlo di spegnere quel cerino che, oggi, è in mano a noi.
L’Italia non può pagare il dazio di una posizione geografica che la trasforma in un lido d’approdo naturale per i disperati in fuga dall’Africa. E Como non può essere costretta a fronteggiare da sola l’intransigenza di un Paese come la Svizzera che blinda sempre di più le sue frontiere. Quella dei profughi è oggettivamente un’emergenza, negarlo sarebbe sciocco e dannoso. Affrontarla in modo autorevole anche nei rapporti con il resto d’Europa e con i nostri vicini di casa elvetici dovrebbe essere una priorità.
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