Anche a me è sembrato un po’ strano collocarmi sul marciapiede del lato corto della piazza e inquadrare la grandiosa e preziosa facciata del Duomo dietro le sagome esotiche delle palme che stanno per diventare un arredo urbano in uno dei sacrosanti luoghi della milanesità ambrosiana. L’idea mi è sembrata alquanto azzardata, provocatoria.
Va bene che modo di dire un tempo sulla bocca delle genti rurali del contado brianzolo talvolta annunciava, tra l’ammirazione e la presa in giro nei confronti dello sprezzante popolo cittadino, che “a Milan anca i murôn fan l’üga”. Quindi a Milano può succedere di tutto: ma questa era solo il pensiero di un “paisan” che si sentiva guardato dall’alto in basso dai “sciuri” della città. Penso che non avrebbero visto di buon occhio essenze esotiche come le palme tropicali davanti alla magnificenza del “Dòmm” nemmeno quei fortunati figli del popolo brianzolo cui capitava, magari una sola volta nella vita, di tornare alla cascina raccontando di aver ammirato estasiati le bellezze di Milano.
Ci sono delle realtà consolidate, dei costumi, delle usanze così radicate nella tradizione dei luoghi e delle loro genti che non possono essere modificate e alterate con delle innovazioni che, oltre a tutto, come in questo caso delle palme davanti al Duomo, assomigliano molto a un capriccio, a una stravaganza: almeno questo a me pare. Però a questo punto non mi pare che, come avviene sempre nelle dispute dell’uno visceralmente contro all’altro, che sia corretto arrivare a demonizzare queste povere palme, facendole precipitare dal “paradiso”, voluto da alcuni, a una condizione di vituperio così forte da essere messe al rogo: un grande, immenso falò di tutte le nostre palme lombarde, o comasche che sia. Mi è parso già di aver sentito sussurrare che queste piante siano le compagne naturali del così tanto temuto e invadente Islam, o addirittura dell’Isis. E anche questo è del tutto sbagliato.
Anche se essenza alloctona la palma è ormai nella tradizione e nella vita di noi padani della fascia prealpina. Come tante altre essenze esotiche la palma è arrivata qui dal Medio Oriente grazie al clima umido temperato dei laghi lombardi. Le famiglie nobili nell’Ottocento e anche prima, hanno fatto a gara a impreziosire i loro parchi con alberi esotici, compresi i banani, i ficus benjamina e pure i baniani, quegli alberi dell’Estremo Oriente cari a Salgari. Le palme, come le agavi sono forse le più comuni delle essenze “foreste” che hanno trovato grande accoglimento nei nostri parchi, nei nostri giardini. Sono nella cartolina del Lago di Como. Sono nostre.
Mi ricordo la sparuta, altissima palma che si alzava al centro dell’aiuola nel mezzo del cortile della casa di ringhiera in cui sono venuto grande a Erba Alta. Svettava orgogliosa e disinvolta, tra le urla del nostro gioioso e libero giocare nella corte, tra le chiacchiere delle donne da un ballatoio all’altro, in mezzo alle urla dei facchini che lavoravano sotto i portici. D’inverno era un pennacchio di neve bianca. D’estate, sotto le fronde, crescevano le pannocchie gialle. Un amico, il più coraggioso, saliva fin quasi in cima, scorticandosi le cosce e da lassù lanciava il grido di Sandokan quando uccideva la tigre della Malesia. Ricordi come questo ed emozioni conseguenti sono tutti a vantaggio delle palme. Nonostante tutto questo però non vedrei volentieri collocata davanti al Duomo nemmeno la palma della mia fanciullezza nel cortile di Erba Alta.
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