Il giornalista Gigi Furini – noto per l’impegno politico nella sua Pavia e anche per la partecipazione, in qualità di interista, a una trasmissione sportiva di Telelombardia dove, nel ciclone della faziosità, dimostrava misura ed equilibrio – meriterebbe un monumento, da vivente, per un libro geniale scritto qualche tempo fa: “Volevo solo vendere la pizza”.
In esso, si raccontano le peripezie di un tale – Furini stesso – che si mette in testa di aprire un locale per la pizza al trancio e, naturalmente, da cittadino ligio al dovere e rispettoso delle leggi, vuole ottenere i permessi necessari e rispettare i regolamenti vigenti. Purtroppo, la premessa del “tale”, ovvero di Furini, era sbagliata: credeva egli di vivere in una nazione ancora aperta all’iniziativa privata, ancora costruita sulla filosofia del lavoro e dell’operosità, e invece, come il libro racconta, scopre di risiedere nel contorto Paese della burocrazia.
Suggeriremmo la lettura di “Volevo solo vendere la pizza” ai nonni di Cantù la cui disavventura troverete raccontata oggi in cronaca. Decisi a confermare una tradizione lunga ormai un decennio, gli animatori dell’Associazione anziani e pensionati avevano messo in programma per domenica 11 ottobre una festa da condividere con i nipotini. L’idea era di trascorrere qualche ora lieta con una caccia al tesoro, una “sfilata di moda” dei piccoli e, naturalmente, torte e bibite per tutti. Una bella festa, come si vede, ma niente che potesse fare concorrenza a Expo o al Giubileo. Poco importa, la burocrazia non ha bisogno di praterie organizzative per attecchire: le basta un orticello locale. Per farla breve, l’annunciata intenzione di servire cibi e bevande è bastata a innescare una spirale burocratica – permessi, precauzioni sanitarie, tasse assortite – nella quale i nonni di Cantù non hanno potuto districarsi.
Niente festa, dunque: gli adempimenti burocratici, se avevano scoraggiato chi aveva l’intenzione di avviare un’attività per legittimo profitto, non potevano certo essere superati da volontari che, pagando di tasca loro, intendevano soltanto confermare una gentile consuetudine.
Il Comune di Cantù si è detto dispiaciuto per la resa dell’Associazione ma, naturalmente, non può prendersi la colpa dell’accaduto: le scartoffie sono imposte dall’alto e l’amministrazione non ha altra scelta che seguire le procedure. Il problema, come al solito, è che la burocrazia, da garanzia di trasparenza e legittimità per il cittadino, diventa automaticamente una sorta di muffa amministrativa: un pullulare di piccoli provvedimenti, tutti perfettamente giustificabili se presi uno per uno, che, uniti a catena, strangolano qualunque iniziativa e imprigionano ciò che rimane del nostro spirito, non solo imprenditoriale.
Il pensiero che chi, da ministro, si dedicava un tempo alla semplificazione (il senatore Calderoli) abbia oggi inventato una macchina per produrre i milioni di emendamenti necessari per intasare il Parlamento, descrive forse i contorni dell’anelito ideale che domina la politica italiana. Ma che cosa importa? La burocrazia ha vinto la sua battaglia: nessuna pizza a rischio è stata venduta e ai bambini non è stata servita neppure una fettina di torta non autorizzata. Bisognerebbe fare osservare che il prezzo di questa vittoria, ovvero di questa presunta tutela, è che la pizzeria non è mai stata aperta e la festa non si è mai svolta. Ma forse il finale della storia canturina è quello giusto, sarebbe a dire l’unico possibile: l’inazione è la sola pratica che non ha bisogno di timbri.
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