Nella Ticosa si specchia
la politica comasca

Volevano farci la Como del terzo millennio, la sede di tutti gli uffici pubblici, delle imprese artigiane, la location di un nuovo quartiere e invece neppure si riesce neppure a piazzarci uno straccio di parcheggio. È cominciato un altro anno con la Ticosa ancora lì. Inanimata e inutilizzata ha ormai assistito a 37 brindisi di auguri per una buona fine e un miglior principio. A lei, l’area dismessa delle aree dismesse è rimasta solo la fine e non certo positiva. Per il principio, anzi la rinascita, si dovrà attendere ancora, forse un’altra amministrazione delle tante che hanno cercato senza riuscirci di vincere una sfida che, con il passare del tempo, appare sempre più impossibile.

Qualcuno credeva di essersi tolto di mano la patata rovente con la vendita alla compagnia olandese Multi che avrebbe dovuto far sorgere il nuovo quartiere sulle macerie di quella che fu una grande industria. La Ticosa è un boomerang simile a quelli maneggiati da tanti personaggi di film comici e cartoni animati che torna sempre indietro e, di solito, sulla testa di chi lo ha lanciato.

Di certo c’è qualcosa sotto quella superficie assieme ai veleni che continuano a resistere alla bonifica e a far salire il conto. Forse un’entità diabolica e burlona, che si sbellica dalle risate di fronte ai proclami e ai tentativi di sistemare la faccenda. Deve esserne fatte parecchie soprattutto in quel gennaio fatale sui colli di Como, correva l’anno 2007, quando la città si trovò tappezzata di manifesti con il bollo “impegno mantenuto” che annunciavano la demolizione dei vecchi capannoni propedeutica alla costruzione del nuovo quartiere che non vedremo. La giunta era quella guidata da Stefano Bruni e il diavoletto della Ticosa non aveva preso bene i fuochi d’artificio che accompagnavano il solenne e marziale incedere delle ruspe. “Vedrete – avvertiva non ascoltato – riderà bene chi riderà ultimo”. Forse solo lui poteva sapere che quella cerimonia fu l’atto più sciagurato di tutta la saga dell’ex tinto stamperia. Perché avrebbe liberato tutti i veleni dormienti nel sottosuolo scaturiti da anni di attività svolte in totale assenza di leggi ambientali. Ci si poteva pensare prima? Bella domanda. Sta di fatto che la lunga bonifica che ancora oggi non è stata ultimata e la stagnazione del mercato immobiliare dovuta alla crisi economica hanno messo in fuga gli olandesi di Multi che, avendoli in casa, sanno bene che è inutile cimentarsi contro i mulini a vento. Da lì il boomerang, passato attraverso tutta l’amministrazione Lucini, un’altra che il ragno nel buco della Ticosa non è riuscito a cavarlo, e finito addosso all’attuale gestione di palazzo Cernezzi. Volete sapere quante giunte si sono succedute sulle poltrone di via Vittorio Emanuele dalla chiusura della tinto stamperia a oggi? Dodici. E nessuna è riuscita a spuntarla sul diavoletto che, a quanto pare, nelle stagnati macerie di via Grandi si trova come un pascià e non ha alcuna intenzione di accettare lo sfratto. Certo, lui è un bel satanasso. Però anche quelli che hanno provato in tutti i modi a contrastarlo in questi trenta e rotti anni non sono stati all’altezza della sfida. Alla fine, come tutte le cose che resistono nel tempo, la Ticosa è diventata una sorta di monumento, uno specchio polveroso dell’inadeguatezza del ceto politico comasco che certo, nella lunga parabola discendente della saga dell’ex tinto stamperia non ha certo migliorato la sua qualità, anzi. Dice: ma queste cose le abbiamo già lette. E certo, ma se ogni amministrazione non riesce a essere all’altezza delle aspettative e soprattutto delle promesse elettorali che tutti hanno fatto e disatteso sull’ex Ticosa, la colpa non può essere certo dell’autore di questo pezzo, che peraltro non vede l’ora di poter cambiare registro sull’argomento.

@angelini_f

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