Noi fantasmi nella città
che aspetta di vivere

Ma che bello camminare nella città fantasma: fa sentire vivi. E, soprattutto, restituisce vita e senso ai troppi luoghi che ci siamo assuefatti a considerare dei nonluoghi, mentre in realtà sono ricchi di storia e di storie, trasmettono emozioni a chi li attraversa senza fretta o, meglio ancora, si ferma ad osservarli: un mix di conoscenza ed esperienza di quello che ci sta attorno, a sua volta specchio e riflesso della nostra identità di cittadini, senza il quale difficilmente ci verranno idee luminose sul riutilizzo futuro degli spazi abbandonati.

Noi comaschi potremmo tenere un master su come si possa trasformare qualsiasi luogo, anche uno dei più belli del mondo, in un nonluogo: lo abbiamo fatto, per anni, con il nostro lungolago. Ridotto a striscia di porfido sconnesso ai margini di una palizzata, dove transitare velocemente, senza entrare in relazione con il prossimo, senza contemplare panorami, alla stregua di un’autostrada, una sala d’aspetto, la corsia di un supermercato, un autosilo... Quelli che, per tornare all’origine del neologismo, nel 1993 l’antropologo francese Marc Augé aveva per l’appunto definito nel suo saggio “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità” (tradotto in Italia tre anni dopo).

Ma a parte l’autostrada, dove ad arrestare la corsa si rischia la vita, gli altri nonluoghi sono tali soltanto finché noi non decidiamo di fermarci e di osservarli, conoscerli, viverli, magari anche personalizzarli un po’. Come facevamo da ragazzini con la nostra cameretta. Passiamo dalla teoria alla pratica, che forse aiuta di più a chiarirsi le idee e a cambiare atteggiamento. Sabato sera andavo di fretta - dovevo introdurre un illustre poeta cileno, Oscar Hahn, a Palazzo Lambertenghi, dove lui, portato in auto, era già arrivato - quando, attraversando piazza Cavour, la persona che era con me ha rallentato il passo costringendomi ad adeguare il mio: «Ogni volta che passo da questa piazza, penso che sia di una bellezza straordinaria», dice l’ospite venuto da Milano. Non se ne avrà a male a fare nome e cognome: Ottavio Rossani, che in 40 anni di carriera al “Corriere della sera” ha girato il mondo, si è abbeverato di bellezza che ha trasfuso in innumerevoli articoli e libri, eppure si stupisce ancora per l’energia che gli comunica un luogo che noi comaschi abbiamo eletto a simbolo dell’incompiutezza e del vuoto. La faccio breve, a Rossani, e anche a voi: mi limito a raccontargli che dal 1902 recriminiamo sull’unica “suppellettile” che un tempo ornava “il salotto di Como”, ovvero la fontana che Rockfeller comprò per 3.500 lire e da allora si trova nello zoo del Bronx, dopo che noi - per dirla tutta - l’avevamo già risposta in un magazzino, scandalizzati dalla forme generose di una delle statue decorative. «Va bene così, vuota», mi rassicura l’amico, «a che serve altrimenti una piazza?». E’ vero, lo aveva già pensato Eli Riva nel progetto del 1975 mai realizzato dal Comune: una piazza con il lago davanti e alle spalle la città fondata da Giulio Cesare, non può che essere un luogo di contemplazione e d’incontro, che quando ci sono idee ed energie si può riempire di iniziative di ogni genere. Ma è già straordinario di per sé.

Sul lungolago, riconquistato da pochi mesi, è fin troppo facile trovare la bellezza. Proviamo a spostarci verso le periferie. Lo stiamo facendo da un anno e mezzo con il progetto Passeggiate Creative e proprio questa domenica abbiamo camminato con cento persone lungo il Cosia, in un pezzo di città fantasma, riscoprendolo, approfondendolo, riempiendolo di arte, musica e poesia, sentendoci vivi in luoghi dove la vita era lì ad aspettarci, appena nascosta sotto una sottile coltre di indifferenza, creata da noi stessi... Ha proprio ragione il filosofo Alain De Botton: il viaggio più interessante, ci aspetta fuori dalla porta di casa. Quante sorprese nel quartiere che un tempo era il cuore della città della seta e poi sarebbe dovuto diventare il polmone (anche verde) della città universitaria e invece la nuova piazza di via Valleggio (tra università, campus del San Martino mai realizzato e Setificio) è già in balia di individui poco raccomandabili e il giardinetto di via Pannilani, che nel progetto originario avrebbe dovuto essere gestito dagli studenti residenti nell’ex Meccanotessile, ha il “profumo” di un vespasiano. Ma mettendo in rete quel che di vivo c’è lì, dal Museo della Seta ad Arte&Arte,da alcuni scorci del Cosia, dove sono tornati a guazzare i germani, agli spazi del Dadone aldilà del supermercato (le piazze, il ponte da cui si gode una prospettiva inedita della città), il fantasma riprende colore.

Quello di e ieri è solo un esempio tra i tanti: ci siamo riappropriati della mulattiera tra Como e Brunate, dello snodo stradale che passa sopra il torrente Breggia (attraversato con Gianni Biondillo insieme a “Le Primavere” e al Festival della luce) e del Bassone, che non è solo un carcere, ma un’oasi eccezionale, anche se nulla segnala la presenza di Volta, la fattoria che fu della sua famiglia cade a pezzi e dei vandali hanno buttato nel laghetto l’osservatorio che era stato costruito dagli scout... ma proprio vedendo la bellezza del luogo e capendone la storia, dai partecipanti alla passeggiata nacque una colletta per ricostruirlo.

In 25 percorsi, circa 5000 camminanti si sono contaminati con i luoghi (e molti altri lo hanno fatto con altre associazioni e gruppi meritori), in senso positivo, però, non come il sottosuolo dell’area Ticosa, dove, detto per inciso, uno spazio per la cultura c’era già, costato oltre un miliardo di lire ai cittadini, il Corpo a Shed, e demolito con i fuochi d’artificio senza distinguerlo dai ruderi. Città fantasma e città di fantasmi vanno di pari passo: vivono solo i luoghi che vengono vissuti. E per gli sconosciuti, siano essi luoghi o persone, tendiamo a provare indifferenza, anche quando muoiono. È una legge di natura.

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