David Letterman è celebre per aver scientificamente fatto a pezzi, grazie a una comicità spietatissima e urticante, tutti i presidenti degli Stati Uniti, da Reagan e Obama, con i quali si è imbattuto durante i trentatré anni del suo “Late show”. Ma, da perfetto liberal newyorkese, si è accanito in modo particolarmente crudele sui due Bush, senza nascondere una “predilezione” nei confronti del figlio, il succube del padre, sprovveduto, incolto e inettissimo George W. Bush. Al punto che, nel bel mezzo della sua presidenza e delle polemiche per l’invasione dell’Iraq, ha sparato questo aforisma surreale e iperbolico: «Nella notte è morto il re dell’Arabia Saudita, Abdullah. Ora il potere passerà nelle mani di suo figlio, quell’imbecille di Abdullah W. Abdullah».
Apoteosi. C’è gente che ha riso per due giorni dopo questa strabiliante analisi politica, che solo un genio della satira poteva portare a sintesi. Ma ora non è il caso di incensare per l’ennesima volta il talento di Letterman, che ha appena messo fine alla sua carriera di anchorman, ma riflettere su quale abisso esista anche in questo campo tra l’Italia e gli States. Pensateci un attimo. Un comico, anche se questa definizione limita di molto il suo talento multiforme, per quanto straordinario, dà dell’imbecille all’uomo più potente del mondo, che ha trascinato la sua nazione in una guerra sanguinosa che ha spaccato la società americana come solo il Vietnam, e non succede nulla. Niente interrogazioni parlamentari. Niente scandali nazionali. Niente editti bulgari. Niente girotondi in piazza. Niente siluramenti dorotei alla vaselina. Niente di tutte le specialità della casa che contraddistinguono il nostro rapporto non solo tra satira e potere, ma anche tra giornalismo e potere. Niente di niente. Un altro mondo. Forse migliore, forse peggiore, ma di certo un pianeta di marziani rispetto alle dinamiche che regolano il patetico showbiz della nostra repubblica dei datteri.
Il tema è che nella cultura americana il politico, ma anche il grande finanziere, il lupo di Wall Street, così come il vip del mondo dello spettacolo, sa che uno dei prezzi ineludibili da pagare alla celebrità e al successo è quello di farsi sbertucciare dai programmi di satira e scartavetrare dai media e che questo trattamento lo si debba subire dal più bravo di tutti, Letterman appunto, in fondo non è altro che una medaglia al merito da appuntarsi al petto. Perché non sono queste le cose che danneggiano la sua carriera, quanto invece, in un abito mentale puritano come il loro, raccontare bugie agli elettori, ad esempio, o non pagare le tasse. A quel punto, sei morto. Morto e sepolto. Altro che toghe rosse, macchine del fango e servizi segreti deviati. Lì finisci ai giardinetti oppure in galera. Qui, invece, fai il commentatore, trami e treschi e brighi nei salotti oppure ti invitano all’Isola dei famosi.
Il nostro rapporto con il potere è duplice. Da una parte, la deriva piazzaiola, sgorgata negli anni di Tangentopoli, idolatrata dal moralismo in salsa Raitre e della quale è stato inarrivabile ventriloquo un grande narratore per immagini come Santoro, che ci ha però lasciato in eredità una pletora di epigoni ammorbanti. E allora vai con il consueto caravanserraglio scarmigliato, lamentoso e benaltrista che tanto piace alla “ggente de sinistra”: e lo Stato dov’è e lo Stato non c’è e ci hanno rubato il futuro e qui non si arriva alla fine del mese e giù le mani dal posto fisso e giù le mani dalla scuola e giù le mani dall’università e giù le mani dalla Cassa del Mezzogiorno e tribuni pulciosi e sindacalisti stropicciati e Marianne in disarmo. Ma con tanto di declinazione destrorsa: e via i rom e caccia al negro e basta spremere le partite Iva e il profondo Nord e le adunate nel pratone e le ampolle e la mitologia della fabbrichetta e dagli a questo e dagli a quello e dagli pure a quell’altro. E tutti - sempre gli stessi: politici, esperti e opinionisti, sempre gli stessi… - a urlare e a ululare e a sbraitare e a sudare e a straparlare. Il classico talk show del martedì.
Dall’altra parte, invece, svetta il metodo Vespa (che rimane comunque il più professionista di tutti) o quello Fazio, al quale da giovane era venuto l’uzzolo di fare il Letterman italiano, poi però, essendo un tipo sveglio, ha capito al volo come si sta al mondo e quindi sono anni che si srotola di fronte al capetto di turno come un Nuccio Puleo qualsiasi. E se è così, visto che siamo pur sempre il paese di Longanesi - “In Italia non si potrà mai fare la rivoluzione: ci conosciamo tutti” - parte l’ammicco, la comparsata, l’ospitata funzionale alla presentazione del nuovo libro, del nuovo film, del nuovo Cd, della nuova Fondazione per rifondare l’Italia e si gioca a fare i simpatici, i giovanilisti, gli informali e c’è l’ex comunista che cucina il risotto, il fanfarone che disegna viadotti e ponti sullo stretto e firma contratti con gli italiani da film dei Vanzina, il neodiccì che fa le scommesse e le penitenze con il bravo presentatore, le madamine del Pd con i loro shatush e le giaguare di Forza Italia con i loro balayage che se la tirano da statiste, ma che se avessero incrociato la Thatcher sarebbe finita a ombrellate, i sondaggisti di regime eccetera eccetera eccetera. Insomma, si slappa e si slurpa il potente con quella tecnica maliziosa e infallibile di offrigli sempre il destro, la battuta giusta, la risposta a tono. Perché il ragazzo è permaloso, non vorrai che ci scappi una querela o l’allontanamento coatto dalla tivù?
È per questo che un Letterman qui è impensabile. Mancano le premesse. La cultura. Il coraggio. Quello che lui ha avuto, poche ore dopo l’undici settembre, nel fare la sola cosa giusta di fronte alla più grande tragedia della storia americana. Smitizzare il Male. Ridere del Nemico. Caricaturizzare Bin Laden, che aveva appena mandato il primo videomessaggio dal suo bunker: «Un miliardario nascosto dentro una caverna… Ehi, non sarà mica Batman?».
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