C’è certamente qualcosa di inquietante nel meccanismo avviato proprio ieri con il nuovo redditometro. Con un click, 128 banche dati hanno già avviato tra loro, al ritmo di 20.200 informazioni al secondo, una conversazione che riguarda ciascuno di noi, contribuenti inermi davanti all’efficienza informatica che tutto conosce.
In qualche remoto luogo del Fisco, tra schermi luminescenti, stampanti inesorabili e camici bianchi, già da qualche ora sta formandosi un elenco di nomi e cognomi, di codici fiscali e di identità cui nessuna legge sulla
privacy garantisce l’anonimato (e questo è il vero rischio, perché se ci sarà un errore, altro che wikileaks...).
Il contribuente onesto non ha nulla da temere, ci viene detto. Giusto, ma ugualmente ci si interroga in famiglia: ma quell’acquisto dell’impianto d’aria condizionata fatto nel 2009, incrociato con l’abbonamento per vedere in tv le partite di Champions, mica farà scattare qualche sospetto nel nuovo infallibile cervellone, dal non rassicurante nome Serpico, come il poliziotto?
In un Paese in cui solo una percentuale infima delle dichiarazioni infedeli viene scovato e sanzionato, basta poco per mettere in allarme. “Non ci sarò anch’io tra i 35 mila che verranno torchiati?”
35 mila sembra un gran numero, mentre è solo una parte infinitamente piccola rispetto alla platea dei soli furbetti del fisco, che sono centinaia di migliaia. Ciascun furbetto pecca in proporzione, naturalmente. Anche un migliaio di euro pagati o incassati in nero sono evasione. E il primo passo dell’Agenzia delle Entrate punta a un introito di circa 25 mila euro pro capite tra i 35 mila individuati. La gradualità è insomma la caratteristica di questa nuova metodologia, anche per dare il tempo a tutti di riflettere e cambiare.
Prendiamo dunque la novità per quello che è. Un (tardivo) test per modernizzare la macchina dello Stato. Tra l’altro, ce n’è già stato uno, e non è andato molto bene, se è vero che il precedente redditometro (molto sociologico e poco tecnologico) ha dato l’irrisorio risultato di 30 milioni di imposte scovate.
Stavolta, si è messa in campo la tecnologia più avanzata, e in fondo era ora che lo Stato usasse il progresso che qualsiasi impresa, ha da tempo introdotto nel suo processo produttivo.
Non c’era davvero ragione perché l’informatica, la grande rivoluzione dell’ultimo cinquantennio, non dovesse essere messa al servizio della correttezza fiscale.
A quando l’uso del computer per realizzare il più efficace (e più invocato) tra i metodi di trasparenza fiscale: l’avvio del conflitto di interessi tra contribuenti, per cui io non chiedo la fattura senza Iva, perché voglio scaricarne l’importo?
Ma c’è comunque qualcosa di molto positivo nell’operazione in cui Attilio Befera, il dominus del fisco italiano, si gioca la reputazione (non più la carriera, perché gli è stato già prorogato l’incarico oltre le norme vigenti).
È il fatto che con il redditometro parta, o dovrebbe partire, anche una gigantesca operazione di dialogo tra lo Stato e i cittadini.
L’operazione prevede infatti due diversi livelli di contraddittorio tra i funzionari che avrebbero scoperto l’evasione e il presunto evasore.
Se l’impianto di aria condizionata è stato pagato con i risparmi sulle vacanze e l’abbonamento a Sky è stato regalato dal nonno non convivente, dovrebbe bastare spiegarlo e il funzionario archivierà il sospetto che era scaturito da un reddito familiare modesto, ben testimoniato da bollette risparmiose e dall’uso solo simbolico del bancomat.
Magari non andrà proprio tutto così liscio, ma certo è importante che il fisco abbandoni il cipiglio del passato, quando si diceva soltanto: paga e, se vuoi perdere altri soldi, fai ricorso.
Ci raccontano di Paesi delle meraviglie, in cui i commercialisti soffrono ma il ministero delle Finanze ti manda a casa il 740 già precompilato, o l’assegno per il rimborso (subito, non tra dieci anni, e senza interessi). I Paesi in cui puoi telefonare o chattare su Facebook con il “tuo” funzionario. Che ha una faccia, che puoi guardare negli occhi.
C’è una scienza economica nuova che si chiama “economia comportamentale” che pare stia dando ottimi frutti nell’Inghilterra di Cameron, proprio nei rapporti Stato-cittadini.
È basata sul principio che “se vuoi che qualcuno faccia una cosa utile per te, devi rendergliela facile da fare”.
Un bel motto, nel Paese che ama tanto complicarti la vita.
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