Ci si rivede bambini, incollati al finestrino della macchina di papà mentre si scavalca Genova sul ponte del miracolo italiano, quello che porta dritti al mare, alla vacanza sulle spiagge strette del savonese, Loano Pietra Ligure Borghetto Santo Spirito, le ferie dopo un anno di lavoro, la Liguria che viene finalmente incontro senza il tormento delle strade secondarie.
Da ieri quel ponte, che dal 1967 regalava il sogno a migliaia di italiani, non c’è più, spazzato via da un fato chiamato incuria e indifferenza o semplicemente vecchiaia, durante un temporale tropicale segno anche questo di tempi diversi, non più omologabili. Oggi ogni avvenimento è vissuto in tempo reale, così la rete ci ha restituito addirittura il momento del crollo, ripreso con il cellulare da un passante, e trascorsi pochi minuti già le testimonianze di chi ha salutato la morte dopo essere uscito di casa per andare al lavoro.
Una bomba di altissimo potenziale esplosa nel cuore della città di primo mattino, qualcosa simile a un terremoto capace di uccidere, assieme alle vittime, la festa di Ferragosto, che il ponte sul Polcevera aveva collaborato a rendere simbolica, perché da lì piemontesi e lombardi sciamavano a mare in anni di esodi e contro esodi.
L’allarme ponti e cavalcavia data da molto tempo, in ogni parte d’Italia, e il ponte progettato da Riccardo Morandi nel ’63 entrava a buon diritto tra i manufatti più a rischio, attraversato ogni giorno da centinaia di veicoli pesanti, nel segno di un cambiamento totale della tipologia del traffico dagli anni della sua costruzione. Così il crollo è avvenuto, fermando la vita di troppe persone e miracolandone altre, proprio come accade in guerra, quando la pallottola o la scheggia di granata ti accarezza il viso e uccide chi ti sta accanto.
E ogni volto, ogni parola, ogni dolore finisce sugli schermi di noi che a casa inorridiamo ma vogliamo sapere, vedere, essere là, perché nel mondo sempre collegato non c’è pace mai, e già si è passati oltre l’angoscia e il terrore per cliccare sui commenti di onorevoli, ingegneri, opinionisti, esperti e cassandre postume, ma forse bisognerebbe pensare a chi c’è là sotto, vivo o morto, dopo il volo inesplicabile nel mattino di una vigilia ferragostana.
Il camionista che è stato catapultato fuori dall’abitacolo e ha soltanto una spalla slogata, il collega che si è fermato sull’orlo del baratro e il suo mezzo è ancora lì con le luci di posizione accese, come quando ci si ferma a un passaggio a livello chiuso, il giovane calciatore della squadra di Savona «andato giù col ponte» e in ospedale con pochi graffi.
Voci dalle macerie di persone qualunque, perché su quel ponte avrebbe potuto esserci ognuno di noi, e sarebbe bastato un metro in più o in meno per giocarsi la vita come alla roulette.
Oppure essere in casa, nella vicina fabbrica, sul treno o lungo il torrente quando tonnellate di cemento rotolavano da novanta metri d’altezza, senza un apparente motivo, per colpire uomini donne e bambini. Di un’Italia che cade a pezzi, in cui si aprono voragini per le strade, si sgretolano le montagne, cascano cornicioni e parti di monumenti, si allagano le scuole spesso a rischio di crollo.
Così la fotografia del camion blu e verde dei supermercati Basko, immobile a un metro dal vuoto è l’immagine dello smarrimento di un Paese senza più controllo, mentre quella dei due monconi del ponte, così irrimediabilmente lontani l’uno dall’altro, testimonia l’enorme distanza tra i cittadini e la loro classe politica.
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