Noi esseri umani siamo degli spassosi personaggetti. Parliamo, straparliamo, pontifichiamo, catoneggiamo, sdottoreggiamo sull’universo mondo, tirandocela da gran signori, ma poi, alla fine, quando veniamo giù dal pero, ci accorgiamo che la realtà è andata da tutta un’altra parte e che, soprattutto, è esattamente il contrario di ciò che avevamo sempre immaginato. Scienziati.
Lo scandalo della settimana è, naturalmente, quello di Facebook, dopo lo scoop - realizzato da alcuni giornali tradizionali - sulla società Cambridge Analytica, sotto accusa per aver usato i dati personali di cinquanta milioni di utenti del più popolare social media del mondo a fini politici e le conseguenti, imbarazzatissime e per nulla convincenti scuse del suo fondatore. Mark Zuckerberg ha ammesso l’errore in diretta tivù - altro media tradizionale - e si è impegnato a garantire per il futuro la più totale riservatezza sui dati sensibili dei suoi iscritti. Crollo in borsa. Credibilità azzoppata. Tragedia nazionale. Anzi, tragedia planetaria. Di più, tragedia ultraplanetaria, visto che Facebook per sua natura supera i confini geografici, linguistici, economici e religiosi. Fine dell’età dell’innocenza. Gente sconvolta. Traumi familiari. Generazioni sotto choc per aver realizzato – un po’ come Fantozzi dopo le letture marxiste-leniniste suggeritegli nello scantinato dei reietti dal compagno Folagra – che questi qui li avevano sempre presi per i fondelli. E la conseguente accusa, la peggiore che si possa rivolgere al cherubino del nuovo mondo senza difetti, senza falle e senza macchie che rappresentava il paradiso in terra della massima trasparenza, massima libertà, massima democrazia, massima condivisione, di essere invece il peggiore dei luciferi: “Quello lì pensa solo ai soldi”. Ma davvero?
Ora, la vera domanda è come sia stato possibile che centinaia di milioni di esseri pensanti e senzienti si fossero bevuti la panzana di un mecenate del bello, del buono e del giusto che aveva inventato la ricetta dell’eterna felicità per puro amore disinteressato nei confronti dell’umanità. Ma come è possibile che gente, magari pure studiata ed esperta della vita vera, non avesse colto che questo, come tutti gli altri, non è altro che un business - e che business, che business pazzesco, rivoluzionario, clamoroso - certo destinato a incidere nei comportamenti, nell’interazione sociale, nell’antropologia umana e quindi davvero dirimente, ma comunque frutto di un’azienda basata sui profitti - mostruosi – realizzati grazie al dono gratuito, inconsapevole e soprattutto ottuso di noi popolo bue al nuovo dittatore omeopatico delle coscienze? Altro che quei dilettanti del Novecento.
Ma la cosa ancora più profonda e inquietante - e proprio per questo diabolica - è che i social hanno vellicato come nessun altro mai prima d’ora la natura infingarda, fanghigliosa, patetica, egocentrica, narcisa e soprattutto fragilissima di noi carne da macello, disposti a tutto pur di esibirci, pur di farci vedere, pur di spacciarci come diversi e interessanti e speciali, noi che diversi e interessanti e speciali non siamo affatto. Non siamo mai. Lo scandalo non è che siamo stati plagiati, inquadrati e indottrinati, ma che abbiamo voluto essere plagiati, inquadrati e indottrinati. E non può che essere così, perché altrimenti nessuno passerebbe le ore a postare riflessi della propria vita privata che - nota bene - non interessano a nessuno. Ma davvero a nessuno.
Insomma, a chi importa della tua torta di compleanno, del tuo gattino arruffato, delle coccole serali al tuo trottolino amoroso, delle tue profondissime riflessioni sul tempo che passa davanti a un mare in tempesta e dei tuoi amarcord del tempo delle mele e del tuo mojito sulla spiaggia, del tuo commento a quel film o a quella serie americana o a quel gol in fuorigioco o a quel nuovo locale dove c’è sempre bella gente o del tuo pump in palestra o della pagella del tuo diavoletto e il resto dello sciaguattare del tuo piccolo mondo antico? A chi importa? A chi interessa? A chi frega? A chi frega anche minimamente? A chi? A nessuno. A niente e nessuno. E invece non c’è nulla da fare e selfie ammiccanti e poesie d’amore (sempre della Merini, naturalmente…) e foto dell’età dell’oro (sempre di Audrey Hepburn, naturalmente…) e film da culto (sempre il mondo di Amélie, naturalmente…) e aforismi sagaci e calembour pugnaci e divertissement veraci e faccini e cuoricini e gattini e leoncini e fiorellini e pollicini all’insù o meglio anche all’ingiù e diavoletti e nanetti e musetti imbronciati e tutto il resto di un alfabeto da liceali ritardati che sottende invece e tragicamente cinquantenni allo sbando, adulti mai cresciuti e tanta di quella fuffa, ma tanta di quella fuffa esistenziale che ingombra le nostre povere vite e che dovremmo avere il pudore di nascondere per bene in cantina invece di vomitarla in faccia al globo terracqueo. E per la qualche siamo disposti a vendere tutti i dati personali che abbiamo e pure quelli dei parenti vivi e morti, altro che supreme indignazioni nei confronti del cattivone di Palo Alto.
Cambia tutto, ma non cambia mai niente. La vita degli uomini, anzi la storia degli uomini, è tutta segnata da un continuo tentativo di indottrinamento, di plagio, di circonvenzione di incapace, di imposizione di modelli politici, sociali ed economici agli individui e alle masse. Certo, qui siamo arrivati al massimo grado di pervasività e di diffusione planetaria, ma il concetto resta lo stesso. La sua radice resta la stessa. Un grande vuoto alberga nel cuore degli esseri umani, un grande abisso spalancato sul suo senso, sul suo cammino, sulla cognizione del suo dolore. Cercare di ovattarlo condividendolo è quanto di più umano, di più commovente e di più patetico si possa fare. È un errore, ma davvero tanto umano. Dovremmo cercare di capirlo e smetterla. Il vuoto è sempre meglio guardarlo negli occhi, per poi tentare di riempirlo con materiali più nobili.
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