La figura del padre, agli occhi dei figli, ha tre tempi: eroe invincibile dalla nascita fino ai tredici anni, patetico fallito dai quattordici ai venticinque, poverocristo dai venticinque in poi.
Non c’è niente da fare. È’ un rito di passaggio. Ed è quindi inutile recriminare su questa lama piantata nel petto e prendersela con i tempi mefitici in cui ci tocca vivere o con la decadenza dei costumi di questa capitale corrotta e di questa nazione infetta, aggrappandosi di volta in volta a questo o quel sociologismo.
E non è neppure necessario essere degli specialisti di psicanalisi per cogliere che l’incomprensione della figura genitoriale in assoluto e di quella paterna nello specifico da parte dei giovani, l’incomunicabilità a volte davvero assoluta, monolitica, crudele con chi ti ha dato la vita faccia parte del nostro istinto, della nostra formazione, della nostra cultura. Lo ha scolpito con parole di pietra Ivan Karamazov in un passaggio chiave del romanzo più grandioso e terribile della storia della letteratura: “È Smerdjakov che ha ucciso mio padre, non mio fratello. Lui ha ucciso, e io gli ho insegnato che uccidesse… Chi è che non desidera la morte di suo padre? Tutti desiderano la morte del padre”.
Il tema del rapporto tra padri e figli, già di per sé straordinario, è tornato di attualità grazie a un libro di Michele Serra - per tanti anni il miglior giornalista di costume italiano, anche se ora non più - tutto dedicato alle proprie angosce di papà che tenta di capire il mondo del suo ragazzo adolescente tra profondissime crisi di comunicazione e la sensazione opprimente di aver a che fare, per la prima volta nella storia, non più con il classico conflitto generazionale o con l’odio covato nell’inconscio a cui si riferivano le citazioni di Arbasino e Dostoevskij, ma con una vera e propria mutazione genetica. E cioè, che questi giovani qui, gli adolescenti di questi anni specifici siano un’altra cosa da un punto di vista antropologico rispetto a quelli che li hanno preceduti.
Il libro si intitola “Gli sdraiati” per riassumere in forma plastica il loro modo di vivere, che consiste nello stare stravaccati ovunque si trovino e qualunque cosa facciano: sul divano, sul pavimento, a letto mentre studiano, alla scrivania, a tavola mentre mangiano. Ed è un libro interessante - Serra è uno che ha sempre scritto come un semidio - che ci induce ad alcune riflessioni davvero acute, come quelle dedicate al dito, anzi, al Dito, nuova entità autonoma e sovrana che ormai tutto ordina e codifica. Il Dito che smanetta sullo smartphone, il Dito che bazzica su Facebook, il Dito che manda un sms o un cloud, il Dito perennemente in funzione qualsiasi cosa si faccia o si pensi. Oppure quelle dedicate all’humus da foresta cambogiana che alligna nelle camerette dei ragazzi o nel loro bagno infestato di calzini rappattumati, asciugamani luridi e sgocciolanti, scarponi lanciati qua e là, umori, odori e tutta una serie di schifezze e di disordini non solo ambientali da far sembrare dei cottage svizzeri le lercissime camerate dei tempi del militare.
E in tutto questo dipanarsi, la lettura è gradevole, ricca di spunti penetranti. Senza che però non si smetta di cogliere un retrogusto di fondo, sottile ma tenace e che con tutta probabilità diventa parte integrante di chi ha rovinosamente passato i cinquanta o si accinge, tra timori e tremori, a incrociare quelle colonne d’Ercole. La malinconia dei bei tempi andati. Degli anni passati che, a prescindere, erano meglio di quelli presenti e vivi, come nell’aneddoto di quella anzianissima nobildonna francese che ripeteva a tutti quanto fosse bella la stagione del Terrore, perché è vero che si mozzavano teste a ripetizione ma lei, a quell’epoca, aveva sedici anni! E non è forse così? Queste struggenti riflessioni di Serra non sono le stesse dei genitori di quei figli che sono stati ragazzi negli anni Ottanta? E c’è il riflusso e non ci sono più le ideologie e non avete più valori e pensate solo ad andare in discoteca e a guardare quella porcata di Drive In e non si leggono più libri e non si va più al cineforum e sempre lì ipnotizzati in sala giochi... Anche quei ragazzi erano antropologicamente diversi dai loro genitori e i loro zii, quando giocavano alla rivoluzione contro le insanabili contraddizioni della società borghese e si mettevano le minigonne e schitarravano in Grecia, non erano antropologicamente diversi rispetto ai loro, di genitori, che invece avevano visto il fascismo e il comunismo e la guerra e loro sì che conoscevano il valore dei soldi e della vita, altro che le occupazioni e il teatro alternativo in calzamaglia?
L’angoscia è sempre quella. Sempre. Chissà dov’è, chissà chi frequenta e perché non chiama e perché non risponde al telefonino e ogni sirena è un mal di cuore, ogni notizia sulla festa finita a cazzotti un brivido e a ogni domanda non una risposta ma un grugnito, uno sbuffo, uno smozzico, un tossicchio in quello slang padano-inglese incomprensibile e tutte le volte la tua penosa ricerca di dare un senso alla parola “autorità” senza sprofondare nel grottesco e soprattutto il tuo tentativo di non cadere nel più patetico degli errori. Iniziare a scimmiottarli. A inseguire i propri figli su una strada che non ammette intrusi, che a vedere certi quarantenni coprirsi di ridicolo con i loro post su Facebook e i tweet da liceali ritardati con i pollici all’insù e i faccini sorridenti prima ti viene voglia di mettere mano al badile, poi ti viene da ridere su quanto noi classe dirigente si sia veramente allo sbando di fronte agli schiaffi della modernità e poi, alla fine, ti viene da piangere. Perché hai la precisa coscienza che arriva sempre il momento in cui un padre si rende ridicolo di fronte al proprio figlio. E quando non ti presenti a lui per quello che sei – sorpassato, bolso, ammuffito, certo, ma tu in quanto te stesso – ma ti trucchi e parrucchi come un Aschenbach di terza categoria, beh, allora questo è quel momento.
[email protected]© RIPRODUZIONE RISERVATA