Piccolo sarà anche bello. Ma, un po’ meno piccolo, certamente conviene di più. I primi ad ammettere la piacevole sorpresa sono stati proprio loro, gli amministratori di Colverde, il Comune nato una manciata di mesi fa grazie alla fusione di Drezzo, Gironico e Parè. Numeri alla mano si sono accorti che, grazie agli incentivi governativi legati all’accorpamento, il loro bilancio consentirà di effettuare una serie di opere pubbliche che, altrimenti, sarebbero stati rubricati nel cosiddetto “piano triennale” inquietante sin dalla definizione e che rimane un inutile libro dei sogni, da squadernare al più in campagna elettorale. Ma se ne accorgeranno anche i cittadini che avranno un risparmio medio di 130 euro a testa di tasse locali. Mica bruscolini, di questi tempi.
Non serve essere ragionieri, di conseguenza, per barattare senza troppe nostalgie l’”autonomia” in cambio di servizi meno cari e, si spera, altrettanto efficaci.
Naturalmente sarà il tempo a dire se quello di Colverde è un caso isolato di virtuosità amministrativa, che magari arriva dal passato e che, quasi per inerzia, si riversa sul nuovo ente. Così come sarà interessante verificare se i conti sono migliorati anche negli altri comuni che hanno imboccato la stessa strada, dalla Tremezzina a Bellagio. In ogni caso la sensazione è che questa economia di scala in salsa amministrativa, qualche vantaggio lo possa regalare. E non ci riferiamo soltanto agli incentivi governativi che, per esempio, consentono di saltare a pie’ pari l’asticella del patto di stabilità.
In una società così tecnologicamente avanzata, è facile supporre che la gestione dei servizi sia più semplice e meno costosa quando si ragiona sui grandi numeri. Che sia il data base dell’anagrafe piuttosto che l’organizzazione della raccolta dei rifiuti, il numero fa la forza. E riduce il conto finale.
Senza contare la voce risparmi. Che riguarda le strutture (tre municipi, tre sportelli anagrafi, tre uffici tecnici) e lo stesso personale. Con il passare del tempo il numero dei dipendenti pubblici è inevitabilmente destinato a diminuire. E con esso le tasse che sostengono la complicata macchina che finisce sotto il nome omnicomprensivo di burocrazia.
Del resto, la necessità di ridurre il numero degli oltre ottomila comuni italiani è argomento di stretta attualità da circa ottant’anni, ancora prima della nascita della Repubblica. Il tentativo meno fallimentare è stato, a cavallo degli anni Novanta, quello delle “Unioni”, per accorpare i servizi se non proprio le realtà amministrative. L’unico riuscito, invece, risale addirittura al ventennio mussoliniano quando bastò un decreto - e qualche bottiglia di olio di ricino, probabilmente - per risolvere la questione senza troppe rimostranze.
Di certo tutti i politici che ci hanno provato hanno dovuto scontrarsi con una voglia di “autonomia” - sempre e soltanto sulla carta, oltretutto - che sta alla base della storia di un popolo. Non c’era ancora l’Italia, lo impariamo sui libri di storia, quando l’Italia dei Comuni già prosperava. E si è andati avanti così, moltiplicando enti e realtà amministrative: dalle Regioni alle Province, giù giù fino ai microcomuni e finanche alle circoscrizioni, con il loro parlamentino ben retribuito.
Il periodo delle vacche grasse è però finito da un pezzo. E chissà che le ristrettezze economiche di una pubblica amministrazione che aborre la parola “riforma” più o meno come fanno le zanzare con il Raid, non aiutino a mettere la parola fine a quello che, prima di tutto, resta uno spreco.
C’è chi oppone il problema della salvaguardia dell’identità. Aspirazione legittima, certo, perché la memoria vale quando il futuro. Ma non sarà uno stradino o un architetto a mezzo servizio con i vicini di casa a desertificare la nostra cultura. Così come non sarà l’ameno nome di Colverde a cancellare Drezzo, Gironico e Parè. Che continueranno a esistere, sia pure senza il gonfalone da mostrare in parata. E i loro cittadini saranno ugualmente felici. Ma chissà, magari un po’ meno poveri.
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