Alla fine ha sempre ragione Baffone, che si interrogava: “Sì, ma quante divisioni ha il Papa?” Perché il domandone adesso è: dopo lo scontato via libera al processo per il caso della nave Gregoretti, Matteo Salvini è più forte o più debole? Al di là dei risvolti penali che non sono di poco conto, e del fatto che un ex ministro dell’Interno finisca a giudizio per sequestro di persona aggravato (e potrebbe non essere l’unico caso), c’è l’aspetto politico. E il paradosso. Quello di un leader di partito che continua a macinare terreno nei sondaggi ma perde mordente e si indebolisce nell’azione politica.
La decisione del Senato è indipendente dalla volontà di Salvini che si è trovato di fronte compatta la maggioranza che è nata e cresciuta contro di lui. Poteva andare diversamente? No. E anche se Renzi e i suoi non hanno rinunciato a una peraltro tenue esibizione del connaturato bullismo, alla fine i conti sono tornati.
Del resto il leader di Italia Viva che già arranca nella sua battaglia sulla prescrizione non poteva certo permettersi di aprire un altro fronte con quel Conte, arcinemico del leader leghista senza pagare un fio che adesso non può permettersi.
Per tornare all’altro Matteo, la colpa, forse, è la solita. La tendenza ad andare, con troppa leggerezza, oltre i limiti se non del diritto (questo lo stabiliranno in tribunale), del buon senso e dell’equilibrio, in questo caso, anche istituzionale. Nel caso della Gregoretti, l’idea di fermare, sia pure con i presupposti di legge, un’imbarcazione italiana che tentava di approdare, come facevano indisturbate molte altre, in un porto italiano, rientra in questa casistica tipica dell’azione di Salvini, da ministro come da senatore semplice. Di tutto e di più per accarezzare la pancia della gente e di gonfiare il consenso. Un’azione non dissimile, nella sostanza, a quella del citofono azionato nel quartiere bolognese del Pilastro a caccia di un presunto spacciatore, senza rendersi conto di dove si va a sconfinare, visto che siamo ancora in uno stato di diritto.
Alla fine a furia di scagliare di qua e di là, si rischia l’effetto boomerang. I comportamenti estremi magari all’inizio affascinano ma poi, in qualcuno, finiscono per spaventare. Perché ciò che oggi tocca ad altri, Bertolt Brecht insegna, domani potrebbe toccare a noi. E allora magari scatta qualcosa che ti fa perdere l’Emilia Romagna già virtualmente conquistata nonostante una candidata presidente difficilmente presentabile e occultata ad arte.
Oppure finisci a processo con rischio di condanna con quanto ne consegue dal punto di vista politico e istituzionale, e dentro il tuo partito e fra i tuoi alleati, al di là delle doverose solidarietà di maniera, si allarga il dubbio che alla fine certo, sei stato un fenomeno che è partito dal 3 ed è arrivato oltre il 30%, ma c’è il rischio che la risacca torni indietro. E allora il Salvini più forte diventa più debole. La zavorra del processo pesa nei rapporti con gli altri leader del centrodestra, uno dei quali, Berlusconi di Matteo forse preferisce l’altro e poi c’è Giorgia Meloni, piratessa con il vento alle spalle e pronta a un abbordaggio amico per scompaginare gli equilibri interni. Che se si va davvero a elezioni e a governare pesano parecchio. Ecco perché il capitano forte diventa debole. La coperta della politica è sempre corta: se la tiri dalla parte dell’estrema ti scopri il versante moderato, quello che, alla fine, decide sempre chi vince la partita. E sono lì in tanti ad attendere di coprirlo, nell’attesa di vedere come va a finire con il caso Gregoretti eccetera. Per fare politica, insomma, non basta accarezzare il pelo della “ggente”. Una verità che Salvini farebbe meglio a comprendere. Per il suo bene e non solo, se gli toccherà di nuovo la ventura di governare il paese.
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