Dal palco della Leopolda, la convention fiorentina ambientata nella vecchia stazione ferroviaria del Granduca di Toscana che consacrava il suo successo politico, Matteo Renzi ha decretato il requiem per il posto fisso.
Forse è stato un po’ troppo affrettato nel suonare le campane a morto di una conquista del lavoro del secolo scorso. Forse il premier e segretario del Pd intendeva semplicemente distinguersi dalla minoranza del suo partito e dal popolo di piazza San Giovanni. Il popolo che nella manifestazione organizzata dalla Cgil protestava contro il suo
governo e la sua riforma del lavoro. Il popolo dell’articolo 18, uno degli spartiacque ideologici imposti da Renzi (di qua gli innovatori, di là i conservatori, di qua il futuro, di là la palude, di qua l’i-Phone, di là il gettone telefonico).
Ma soprattutto Renzi è stato ambiguo. Se infatti per posto fisso si intende l’antico modello di azienda anni Sessanta in cui il dipendente attraversava tutte le sue stagioni della vita, fino alla pensione, è probabile che il premier abbia ragione. In una società post fordista o post taylorista come la nostra, squassata dalla competizione del costo del lavoro selvaggio che arriva dall’Est, dall’Estremo Oriente o dalle potenze emergenti, la flessibilità è d’obbligo. Per reggere la concorrenza e stare sul mercato un’azienda moderna deve spesso cambiare i turni, gli orari, le festività, le commesse, i tempi e i modi del lavoro, che si è fatto sempre più segmentato.
Ma se al posto fisso Renzi contrappone un’era improntata alla precarietà, fatta di contratti discontinui e atipici, con il lavoratore inteso come pedina da inserire “just in time” a seconda dei flussi produttivi, da caricare e scaricare come una merce da stoccare nei magazzini, allora la sua politica economica non può promettere nulla di buono. Perché la precarietà produce danni sociali e umani e si riflette in precarietà della vita. Com’è possibile farsi una famiglia, comprare casa, accendere un mutuo, pagare a rate un’automobile, con un lavoro precario? Com’è possibile accumulare una qualche significativa esperienza professionale, trasferibile da un datore all’altro, se non si fa in tempo ad imparare niente sul campo?
“Il lavoratore non è una merce”. Lo sosteneva già Leone XIII nella Rerum Novarum, la pietra miliare della dottrina sociale della Chiesa, che è del 1891. A che serve avere l’i-Phone se poi sul piano delle tutele si va indietro agli anni della Rivoluzione Industriale, più di un secolo prima dell’epoca del gettone? Quest’idea molto renziana dello smontare i diritti di chi se ne può avvalere, in modo da portarli – in nome dell’eguaglianza sociale- sullo stesso piano di chi non ce li ha, anziché fare il contrario, non sembra una grande idea. Il rischio è che risponda più a una gigantesca operazione di abbassamento del costo del lavoro: licenziare i padri per assumere a metà prezzo i figli.
Senza contare che la precarietà, ormai a pieno regime da almeno una decina d’anni, non sembra aver prodotto risultati visibili in tema di occupazione, diminuita di tre milioni di posti di lavoro. Dunque non è vero che il modello di lavoratore “playmobil” da montare e disfare, a disposizione dell’azienda, è funzionale alla ripresa economica. E non è nemmeno vero che la stabilità dell’occupazione è compatibile con un’economia dinamica, e dunque precaria.
Come sostiene il massimo sociologo del lavoro Luciano Gallino “il fatto è che negliultimi anni le imprese multinazionali hanno costruito un modello produttivo-finanziario totalmente asservito alla libertà di movimento del capitale”. Perché è questa la domanda da un milione di dollari: che tipo di capitalismo ha in mente il giovane Matteo Renzi, prima di lasciare la politica tra nove anni, nel 2023, come ha annunciato dal palco della Leopolda? Lui non avrà problemi a ricollocarsi. La maggior parte degli italiani sì.
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