Diceva Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti dal 1981 al 1989, che in fondo siamo tutti dipendenti statali, posto che «un contribuente è una persona che lavora per lo Stato senza nemmeno avere avuto bisogno di superare un concorso pubblico».
Icona di un decennio di spensierato benessere e di disimpegnato cazzeggio (nel quale noi italiani ci ritrovammo a perfetto agio), Reagan colse nel segno, dicendo una cosa che, se valeva all’epoca, vale a maggior ragione oggi, in tempi meno prosperosi in cui i governi attingono ai nostri portafogli con sempre minor ritegno. Nonostante gli anni trascorsi, ad un consolidamento de facto del senso di quel pensiero, è corrisposto un ampliamento assolutamente paradossale della distanza tra il pianeta del privato, quello del contribuente per antonomasia, e il moloch del pubblico, due universi che continuano a confrontarsi su piani normativi molto distanti, nonostante Renzi, Madia e riforme assortite. La riflessione è conseguenza di una notizia di cui diamo conto in cronaca: la notifica di tre avvisi di garanzia ad altrettanti dipendenti comunali sospettati di essersi dedicati a una pratica antica e irrinunciabile come il salame nelle vignette di Jacovitti, quella di arrivare in ufficio al mattino, di timbrare il cartellino e di uscire per una passeggiata in centro: pochi minuti, il tempo di un caffè.
Ora: il bon ton (giornalistico e non solo) suggerisce di auspicare una risoluzione del caso la più indolore possibile. Cioé. La magistratura indaghi, i tre dipendenti dimostrino di non avere “rubato”nulla, i giudici archivino e tutti amici come prima. Ma è impossibile non rilevare come un caso analogo, in una qualunque azienda privata, si sarebbe risolto con un licenziamento deciso nel volgere breve di un quarto d’ora, e comunque a prescindere dall’esito dell’eventuale indagine penale per truffa che ne sarebbe conseguita. Senza voler allestire forche in piazza (e detto che probabilmente sono sbagliati anche i pochi minuti necessari a un imprenditore per mettere alla porta un dipendente), la differenza tra due mondi che restano così distanti non smette di suscitare un senso di disagio. Distanti nei rischi, distanti nelle garanzie, distanti nei diritti e nei doveri pur rappresentando, l’uno e l’altro, e per ragioni diverse, le architravi su cui si regge il Paese. Ha senso che ancora oggi tra pubblico e privato siano in vigore leggi e norme così diverse? E soprattutto: qual è il senso di questa differenza? In altri Paesi non si coglie più alcun distinguo, sempre che mai si sia colto. Per dire: due epocali crisi di cassa costrinsero i municipi di Bellinzona prima e di Lugano poi, un paio di anni fa, a intervenire con una scure sui costi del personale esattamente come in una fabbrica della Bassa o in un mobilificio del Canturino, senza che nessuno battesse ciglio. Non è un auspicio, per carità. Non lo è per il privato, non c’è motivo per cui debba o possa esserlo per il pubblico. E però c’è un problema anacronistico di abissale differenza nelle garanzie, nelle tutele, spesso anche nei trattamenti e nell’erogazione di premi di produzione o incentivi di cui, con rare eccezioni, nel privato si è completamente perduta traccia. Finisce per essere anche una questione di motivazioni, di sfide, di voglia di “spendersi”, di voglia di produrre. Due velocità, davvero: quella di chi ha ancora il tempo per un caffè dopo avere timbrato il cartellino, e quella di chi conta i minuti per far quadrare i conti.
Siamo tutti dipendenti statali, come diceva Reagan. Per cui: o si abbassano le tasse o prima o poi dovremo incontrarci sullo stesso piano. Quello di norme e leggi uguali per tutti.
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