Qualche domanda
dietro a una morte

C’è una tonnellata così di domande dietro l’omicidio di Carugo, dietro la morte dell’architetto Alfio Molteni, ammazzato forse addirittura per sbaglio sotto un acquazzone tropicale nel giardino della casa di suo padre.

Una volta tanto sembra che il crimine organizzato c’entri poco o un tubo, nonostante tanti dettagli e una ricostruzione che raccoglie scenari quasi rituali: l’auto bruciata, le pistolettate, la molotov gettata nel lucernario della taverna di casa, infine la resa dei conti.

A confermare l’insussistenza di una pista che porti là dove tutti quanti pensavamo di andare a parare, è lo stesso comando provinciale dell’Arma, che ieri ha fatto sapere di come, la scorsa estate, il caso delle minacce al professionista brianzolo fosse addirittura finito sul tavolo di un comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, al termine del quale si era tuttavia deciso che non sussistessero gli estremi per sottoporlo a un qualunque protocollo di protezione. Come a dire: lo minacciano sì, ma lo fanno senza che vi siano indizi, e meno che mai prove, tali da far ritenere plausibile un’escalation di violenza.

Spiegarlo ai familiari di Molteni, oggi, è molto difficile, e basti in questo senso lo sfogo del fratello, l’altra sera sulla scena del crimine, mentre personale medico e paramedico tentava un’impossibile rianimazione sul selciato di via Garibaldi: «Gli avevate riferito che poteva stare tranquillo», ha detto rivolto allo stuolo di uniformi che gli “cinturavano” casa, ignaro, per esempio, del fatto che i tre fascicoli conseguenza delle altrettante denunce sporte negli ultimi quattro mesi neppure fossero confluiti su un’unica scrivania, in un unico ufficio.

Qualcosa, in altre parole, non è andato come doveva andare, qualcosa non ha funzionato, né basta a giustificare questo blackout la constatazione del fatto che ogni giorno nei comandi stazione dell’Arma e negli uffici della polizia di Stato e in quelli al quinto e al sesto piano del palazzo di giustizia si accumulino centinaia di querele sempre identiche, per minacce, per atti vandalici, per incendi dolosi, per danneggiamento, quintali e quintali di carta sulla quale molto spesso è impossibile indagare compiutamente. Sono gli stessi episodi di cui, ciclicamente, l’antimafia di Milano chiede conto e rendiconto, in cerca dei segni di un incedere tipico, quello delle locali, degli affiliati, della ’ndrangheta e dei suoi professionisti del recupero crediti.

Questa volta no: se le impressioni delle prime ore sono quelle giuste, allora il racket non c’entra nulla. Saperlo consola poco, pochissimo. Anzi: stimola un brutto retropensiero. Quello che forse, mettendoci il naso dentro fin dall’inizio, la morte di Alfio Vittorio Molteni si sarebbe potuta evitare.

La speranza, adesso, è quella che,quantomeno, se ne venga a capo in fretta. Che si arrestino e si processino gli assassini.

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