C’è sempre un buon motivo per suonarle ai propri figli. Quando l’Inter perde con la Juve, ad esempio. Quando ti hanno giurato e spergiurato di mettere il casco in motorino e poi invece li becchi in tre sulla sella perché bisogna fare i fenomeni con le amichette fuori da scuola.
Quando ti hanno appena soffiato quell’incarico in ufficio attorno al quale brigavi da anni e poi invece se lo è preso quel maledetto che ha fatto carriera solo perché è il leccapiedi degli amici degli amici. Quando non mostrano il dovuto rispetto al loro genitore che, insomma, esce presto la mattina e torna
tardi la sera e nessuno lo saluta e questa casa non è un albergo e qui è lui che porta i pantaloni e pure lo stipendio e tutto il resto di quell’autoritarismo macchiettistico con il quale noi genitori maschi tutti tronfi per le nostre risibili carriere professionali ci copriamo regolarmente di ridicolo.
Quando, soprattutto, vai a vedere i tabelloni scolastici di fine anno e ti accorgi che quello lì è riuscito a prendere tre debiti - una volta si chiamavano esami, ma è la stessa solfa – e pure con la media del tre, che è una roba che solo a sentirla a uno viene voglia di mettere mano al badile. E si sente tutto umiliato e offeso e ferito nel suo orgoglio paterno da questo ciuco, da questo lazzarone, da questo pinocchio che ai suoi tempi non è così che funzionava, caro lei, perché innanzitutto lui non aveva mai beccato un esame a settembre ed erano solo otto e nove che fioccavano in pagella perché i suoi facevano fatica a farlo studiare, altroché, e bisogna essere responsabili e questi qui invece hanno tutto e lo Smartphone e l’iPod e la Wii e Facebook e ogni cosa è dovuta e questa estate per punizione sarebbero da spedire a calci al mercato a scaricare i pomodori alle cinque del mattino, perché, come ricordava il megadirettore siderale in una celeberrima scena di Fantozzi – lui invece era uno che arrivava dalla gavetta e che si era fatto un mazzo così…
Quanto siamo inadeguati anche in questo. Quanto è difficile dare la risposta giusta, essere duri e spietati quando serve e comprensivi quando ci si accorge che ormai la corda si è rotta e l’unica cosa che conti, a quel punto, è rimettere insieme i pezzi. E, soprattutto, quanto cambino di valore tante delle asprezze e dei mutismi e delle incomprensioni che ognuno di noi ha ingiustamente riservato ai propri genitori, perché anche per loro – e te ne accorgi solo adesso, perché è solo adesso, quando il tempo ormai è perduto, che te ne puoi accorgere – era difficile e forse impossibile capire cosa ti frullava in testa a quell’età. Non serve essere padri o figli. Nessuno conosce nessuno. Mai.
Ed è così che, placata almeno per un attimo l’ira funesta per una pagella da querela e alzato lo sguardo su quell’umanità dickensiana che popola una scuola in questi giorni di resa dei conti, quasi senza accorgersene iniziamo a immergere le nostre piccole Madeleine nel flusso della memoria. E basta poco per capire che non è cambiato niente, perché niente è destinato a cambiare e tutto si perpetua in un unico eterno ritorno liceale: le stesse aule scrostate figlie degli stessi governi incapaci e ladroneschi, le stesse frotte di bidelli polverosi, gli stessi professori che ad alcuni dovresti triplicare lo stipendio e ad altri bisognerebbe dare il foglio di via per la miniera di Rosso Malpelo, gli stessi nugoli di ragazzotti con le loro canottiere da sbruffoni e le loro ridicole vibrisse da gatto e le stesse fanciulle in fiore e caldo e sudori e umori e odori e lacrime furtive e occhioni sbarrati davanti alla prof di matematica e quello che fa il duro anche se lo hanno appena bocciato e piangerà da solo chiuso nel bagno di casa, il bullo della classe, il bello della classe, la principessa del corridoio, il ciccione, il quattrocchi, l’isolato e mobbizzato perché nessuno è più crudele dei ragazzi non ancora corrosi dalle buone maniere dell’ipocrisia, il magretto timido e orgoglioso, la ragazzona muscolosa tutta risate e dentoni… Loro con l’arroganza dei loro sedici anni e noi con le piaghe della nostra vita e il cinismo dei nostri lustri ormai neppure più tanto pochi, che stiamo lì a rivederci in loro e a ripensare a quante illusioni e progetti e sciocchezze ed emozioni sbucano fuori da quel vaso di pandora che è un ragazzino a quell’età. Aveva ragione Louis Malle quando, nel commentare il suo ultimo capolavoro, “Arrivederci ragazzi”, diceva che quello che lo affascinava degli adolescenti è che facessero ogni cosa per la prima volta. Amano per la prima volta. Tradiscono per la prima volta. Soffrono e si struggono e si dilaniano per quel mondo crudele dal cuore selvaggio che non li capisce per la prima volta. Progettano fughe romanzesche ed eroici colpi di testa per la prima volta. Sognano gol in rovesciata nella notte di San Siro per la prima volta. Scappano a gambe levate inseguiti dalla loro mamma in bigodini e ciabatte ma armata di ferro da stiro dopo aver preso tre in matematica per la prima volta.
È questo, quando esci da scuola, quello che ti resta. Una grande tenerezza, una conferma su quale enorme scialo sia, in fondo, la vita, un vago senso di dolore ma anche un piccolo conforto. Perché, alla fine, ti resta almeno la certezza che quando sarai sotto sei piedi di terra oppure quando ti aggirerai mezzo rimbambito per i giardini di Villa Serena loro si ricorderanno ancora di quel remoto pomeriggio in cui il loro padre li aveva portati a vedere i voti di fine anno e avranno capito che, in fondo, a lui non importava un bel niente dei tre e dei quattro e delle ripetizioni in pieno agosto e delle mattane da giovinetto inquieto e di tutte le altre stupidate che avrebbero poi combinato nel corso della loro vita e del tutto simili a quelle fatte da lui trent’anni prima. Perché per il loro papà è ancora tutto come prima: li ama ancora, non potrà mai smettere di amarli, li amerà fino alla morte.
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