Per capire quale sia lo spirito vero di questa Expo, il modo migliore è mettersi a ruota del suo commissario unico Beppe Sala e seguirlo nelle sue quotidiane incursioni sui social network. Scopriremo una visione ovviamemente positiva, ma mai retorica. Orgogliosa dei traguardi numerici raggiunti, puntigliosamente lombarda nel ribadire il buon funzionamento di una macchina complessa e colossale nelle dimensioni. Seguendolo si ha la netta sensazione che Beppe Sala non ragioni da leader che tiene alta l’immagine della sua creatura, ma che davvero questa Expo gli piaccia, che ne sia entusiasta e che se la goda. L’impressione del numero uno è un’impressione diffusa: chi esce da Expo, esce contento. Le lamentele per le code ai padiglioni, per i parcheggi mal congegnati, per le disfunzioni immancabili, per i prezzi alti, sono per una volta molto marginali rispetto alla soddisfazione per l’esperienza fatta. Tra le lamentele poteva essercene anche una, legittima, che riguardava la non sufficiente serietà con cui è stata declinato l’affascinante e delicatissimo tema di questa Expo: quello dell’alimentazione e della conservazione del patrimonio nutritivo del pianeta. In effetti da gran parte dei soggetti il tema è stato preso un po’ alla leggera, con il risultato che l’Expo si è presentata come una sorta di grande e giocoso ristorante globale. Gli americani si sono presentati con i loro celebri food truck carichi di hamburger e hot dogs, gli olandesi hanno conquistato il pubblico offrendo scorpacciate di pancake, poffertjes (frittelle), bitter balls (polpette da asporto), Dutch Weed burger (con alghe da allevamento sostenibile). L’Uruguay cattura con il profumo irresistibile delle sue carni (un po’ care). Farinetti sfodera ogni mese chef stellati o quasi, uno per regione.
C’è da dedurne che questa un’Expo trasformata in una sorta di divertimentificio globale? In un certo senso sì. Ma non per questo si può dire che Expo abbia fallito la sua mission. Anzi, proprio per questo, probabilmente la centrerà. Perché ogni Expo ha una mission non dichiarata, che sta sottotraccia. Quella di Shanghai, ad esempio, doveva non tanto far scoprire la Cina al mondo, ma semmai far scoprire il mondo ai cinesi, anche per accompagnarli verso modelli di consumo e di stili di vita più adatti alle necessità di un mercato “di stato” che deve comunque conquistare nuovi consumatori. Quella di Milano 2015 ha un altro punto di mira reale: quello di restituire un po’ di spirito positivo ad un paese che ha vissuto un’esperienza peggiore della crisi, quella di una depressione continuata e collettiva.
L’Expo, arrivata un po’ rocambolescamente puntuale al traguardo del 1° maggio scorso, rappresenta il simbolo – o forse meglio, il sintomo - di un’Italia che ha una gran voglia di lasciarsi alle spalle tante tristezze, che vuole dimostrare a se stessa di potercela fare. E di potercela fare non tanto a cambiare il futuro del mondo ragionando su quel che il mondo metterà nei piatti nel 2050, quanto a cambiare molto più prosaicamente se stessa. L’entusiasmo sincero e lo spirito un po’ “operaio” di Beppe Sala esprimono proprio questo sentimento diffuso, nei termini di un’aspettativa ma anche di un risultato già in parte acquisito. Del resto se alla fine i fatidici 20milioni di visitatori che permettono il pareggio dei conti saranno raggiunti, sarà merito del fatto che a Expo le persone arrivano, non tanto per scoprire cosa avranno in tavola i loro nipoti, ma per la voglia di partecipare a un rito che dice che l’Italia non è più il paese depresso che in tutti questi anni ci hanno dipinto. Questa è un’Expo che conquista con la sua allegria e simpatia. È un’Expo che funziona assai meglio di quanto le tante cassandre avvevano prefigurato. È un’Expo in tante parti persin molto bella. Teniamocela quindi stretta e facciamoci portare un po’ dal suo ottimismo.
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