Questione di pancia
sul pasto dei figli

Delicatissima la questione dei menù che a scuola rifilano ai nostri figli. D’altra parte, molto spesso, quel che c’è nel piatto dice molto di noi. Dice chi siamo, dice come stiamo, dice da dove veniamo, dice di che risorse disponiamo. E inevitabilmente dice molto della educazione che riceviamo. Cioè: la minestra o la finestra.

L’argomento parla alla “pancia”, soprattutto a quella delle mamme, categoria pericolosissima. Scriverne, e soprattutto prendere posizione (è la pappa dell’Asl che fa schifo o sono i nostri figli viziati?) è come discettare di unioni di fatto o calci di rigore rubati. Alla larga. Il piano B del pavido, allora, è questo. Parliamo di soldi, tema decisamente più abbordabile. Quelli che non ci sono e che, se i sospetti sono fondati, rischiano di incidere sulla qualità del cibo che ogni giorno il Comune rifila ai nostri bambini.

Dicono quelli delle cooperative addette alle mense, che il budget a disposizione per ogni singolo pasto ammonta a 3,50 euro. Provateci voi a cucinare un pasto completo (e gradito) con 3,50 euro, in una città in cui (sperimentato giusto ieri), un succo all’albicocca al banco di un bar può costare fino a tre euro.

È sparito il parmigiano, e se chiederete lumi vi risponderanno che visti i prezzi stracciati con cui assegnano gli appalti, dovrete ringraziare il cielo che in tavola ci sia ancora un po’ di formaggio: «La qualità del cibo scade», dicono i cuochi, e non è un bel sentire.

Di amministrazioni con le tasche vuote sentiamo parlare da anni. Di “servizi alla persona” anche. Prima che per garantirli i Comuni venissero a bussare alle nostre porte, molti di noi neppure sapevano di cosa si trattasse. Era il welfare scontato dell’Italia che funzionava, quello in cui i nidi costavano la metà di oggi, quello in cui a stento ci si accorgeva del bollettino postale per il pagamento dei pasti, quello in cui tutto facevano i Comuni.

Oggi, ed è inevitabile che alla fine il dazio lo paghino anche i bambini per quanti sforzi metta in campo l’amministrazione, oggi il Comune incassa uno - cioè quello che gli diamo noi - e spende dieci, peraltro ritrovandosi a gestire un sistema rappezzato, disomogeneo, pasticciato. Per restare alle mense, e senza uscire troppo dal tema, ci sono scuole (via Sinigaglia, per esempio) in cui funziona ancora una cucina, in cui ci sono ancora cuoche che lavorano per il Comune, e ci sono istituti in cui invece i fornelli sono un ricordo lontano, sempre che si siano mai visti: il cibo arriva con il furgone tenuto al caldo di robusti contenitori ben sigillati e le mamme brontolano.

Il tema è: ha senso continuare così? O avrebbe più senso dare il là a un bel ctrl-alt-canc, a un reset totale del sistema, che consenta di affidare all’esterno tutti i servizi alla persona, a partire dagli asili nido, autentica voragine, nonostante le rette, nei bilanci del Comune? Forse è un altro tema pericoloso, che però andrebbe posto, anche se mette tristezza. Una volta i servizi funzionavano. Lo Stato faceva “il suo”, soprattutto in materia di welfare. Nessuno, nei suoi sogni peggiori, avrebbe mai immaginato che il nostro sistema quasi perfetto potesse prima o poi cedere. Sta succedendo. È successo.

Lo Stato mamma non esiste più, la pappa torna a essere un dovere delle mamme, ed è inutile attaccarsi a un modello di gestione dei servizi che la storia sta divorando. Proviamoci. E chissà che il menù non migliori. A sentire i detrattori del passato di verdura, peggio di così non potrà andare.

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