Fino a qualche settimana fa, Matteo Renzi era un genio, uno statista, un gigante del Novecento e pure del Duemila, un titano, uno scienziato, uno stratega, un visionario, un rottamatore, uno con due cosi così e, diciamoci la verità, pure un gran bell’uomo.
E (quasi) tutti lì a piroettare, a saltabeccare, a srotolarsi, a sdilinquirsi tra avide colate di bava di fronte a cotanto cervellone della scienza politica e del suo blitzkrieg nella presa del potere degna di Machiavelli e di Carl Schmitt, oppure tutte lì a cinguettare e trillare e pigolare e squittire e starnazzare sul mirabolante Matteo-style che, grazie anche alle bellezze diafane e angelicate che si era portato al governo, aveva cambiato verso all’immaginario collettivo della nuova etica nuovista che nuovamente nuovizza la novità. Un trionfo. Un terremoto. Una rivoluzione copernicana della politica, del costume, della cultura dei tempi nostri, segnati a fuoco dal marchio dell’uomo del destino che aspettavamo da anni e secoli e millenni per raddrizzare quel legno storto che sono gli italiani e rimettere in riga quella repubblica delle banane che è da sempre l’italietta consociativa, stracciona, familista e amorale.
Adesso, è diventato un coglione. Dai un occhio a un telegiornale o butti lo sguardo su una sapida paginata di cronaca di palazzo ed è un massacro. E incapace e tronfio e vanesio e vecchio arnese della politica politicante politicata rivestita di lustrini e traffichino e margnaffone e furbetto del quartierino e ragazzotto arrogante e cacciapalle atomico, che in confronto quello là che cantava sulle navi da crociera sembra uno stilita luterano, e ignorantone di tre cotte e cerca di darti una svegliata che hai perso le regionali e hai straperso le comunali e ti sei messo contro i sindacati, gli insegnanti, gli studenti, i giovani senza lavoro, i pensionati, gli esodati, gli indignati, i baraccati, gli immigrati, i terremotati, i poteri forti, i poteri deboli, il profondo nord, il profondo sud, caricatura di Fanfani, craxetto da quattro soldi, berluschino dei miei stivali, massone, buffone, cialtrone, ciccione.
E tu sei lì - povero beota vittima predestinata degli eventi, come un contadinotto del Manzoni, come un badilante di lupini dei Malavoglia - e non ti capaciti di cosa possa essere successo nel giro di pochi giorni per far sì che la zuccherina guarnizione di vaselina che avvolgeva Renzi a ogni apparizione pubblica si sia improvvisamente trasformata in una melma paludosa che già lo trascina – spietata e inesorabile - verso i giardinetti, con annesso campo bocce, di Villa Serena. E, soprattutto, come sia possibile che la sceneggiatura di questa commedia da filodrammatica di strapaese sia a ogni cambio di governo sempre uguale, che la baracconata funzioni sempre in questo modo, che la matrice sia sempre lo stessa: identico esordio, identico sviluppo, identico finale.
Ma insomma. E Monti con il suo loden? E Letta con il suo aplomb? E D’Alema con il suo risotto? E Berlusconi con le sue bandane? E Prodi con la sua bicicletta? Tutti geni un secondo prima. Tutti mentecatti un secondo dopo. Altro che storytelling. Qui più che un problema di narrazione, ne abbiamo uno di salivazione, attività nella quale larghe fette del nostro sistema dei media danno continue prove di maestria insuperabile. Il punto è che non si coglie il fenomeno nuovo per raccontarlo con tutti i suoi pro e i suoi contro, cercando di capirne le radici, i contenuti, le strategie e per individuarne i protagonisti, le dinamiche, gli scenari. No, appena capito che questi qui sono i nuovi padroni del vapore, ci si sdraia, ci si tappetizza, tutti avidi di relazioni, di canali preferenziali, di scorciatoie cooptative per la propria carriera personale.
Gli esiti per il popolo bue, che si aspetterebbe di essere semplicemente informato con un minimo di equilibro, sono surreali. Basti ricordare il trattamento denigratorio, spesso censorio e oggettivamente inaccettabile che è stato riservato al Pci negli anni del dopoguerra oppure alla Lega, ma anche al berlusconismo, in quelli del crollo della prima Repubblica. Salvo poi operare una clamorosa retromarcia appena questi sono entrati nella stanza dei bottoni e quando quindi – perché all’opposizione si gioca tanto ai duri e puri, poi però si cresce, si diventa grandi e si pensa solo alle poltrone – hanno iniziato a dettare loro i tempi dell’agenda.
E così è anche ora, né cambia stile. Fateci caso. Si sono passati gli ultimi tre anni a dare dei demagoghi, degli straccioni, dei baluba da caravanserraglio ai Cinque Stelle e a celebrarne più e più volte i funerali tra risa, sghignazzate e colpi di gomiti sui bambocci di Grillo e Casaleggio ma poi, appena apparsi i risultati a doppia cifra alle ultime elezioni, hanno iniziato a spuntare certe interviste, certi ritratti di Di Maio da far invidia a De Gasperi. Chissà perché. Ma è Matteo Salvini – altro statista di valore europeo - sui cui stiamo imburrando velocemente le penne, dopo mesi di insulti, dileggi, motteggi, irrisioni e derisioni. La guardia è stanca, anche se è passato un anno appena, forse è il caso di darle il cambio e partire con una nuova idolatrica narrazione: Renzi asserragliato a Palazzo Chigi che gioca con il mappamondo a forma di pallone e Salvini che aduna oceani a Pontida, Renzi che trama con Verdini e Salvini che, pensoso, lancia la flat tax, Renzi che prende schiaffi dalla Merkel e Salvini che prende a calci i clandestini, Renzi derubato dai rom e Salvini che li arresta in tempo reale e gli restituisce l’orologio, Renzi che affama i vecchietti e Salvini che bacia bambini biondi, Renzi che si mette le dita nel naso e Salvini che invade la Polonia. Salvini, Salvini, Salvini: quanto scommettete che finirà così?
Tutto torna, tutto passa, tutto si dimentica. Forse è già pronto un altro giro di valzer. Il ballerino è pessimo, come al solito, ma niente paura: ci penseremo noi, finché dura, a dipingerlo come il nuovo Renzi.
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