Renzi e il fuoco
sopra Berlino

Le polemiche interne con i sindacati, con la piazza, con le minoranze del Pd e dell’opposizione, rischiano di oscurare quello che - secondo Matteo Renzi - è il più grave problema dell’Europa: un momento economico «molto pericoloso» dominato da un’euroburocrazia che non ha una chiara direzione di marcia.

Lo stesso ministro dell’Economia, solitamente più felpato del suo focoso presidente del Consiglio, avverte che il rischio è quello di andare avanti ancora a lungo, per anni, sulla strada della bassa crescita e della stagnazione. Non è la prima volta che Pier Carlo Padoan parla di carenza di analisi da parte di Bruxelles e sostanzialmente di errori nell’individuazione della strategia da opporre ad una crisi che potrebbe rivelarsi peggiore di quella del 1929.

Questo è il motivo per cui il Rottamatore alza il suo fuoco di sbarramento nei confronti di Berlino. Ripete che nella Ue non c’è un maestro (la Merkel) e una classe di allievi, che non si può contestare a Parigi la decisione di non rispettare i parametri del Fiscal compact, perché alla Germania nel 2003 fu consentito e nessuno le chiese di «fare i compiti a casa» Renzi spiega che ciò non significa che l’Italia seguirà l’esempio di Parigi perché per noi il problema è di diventare credibili, e restare sotto il 3 per cento tranquillizza i mercati. Ma il governo italiano è dalla parte di quello francese e ritiene le rigide regole del patto di bilancio roba di un’altra epoca.

Questa posizione tuttavia ha un punto debole: se Roma pensa che sia un errore insistere nell’austerità, non c’è il pericolo di percorrere una strada che aggravi le difficoltà dell’economia italiana? L’interrogativo non è campato per aria: del resto sia da destra che da sinistra si moltiplicano gli appelli al capo del governo perché si decida ad adottare una terapia shock con un grande taglio delle tasse da finanziare in deficit per un paio d’anni, infischiandosene del tetto del 3 per cento come Hollande. Ciò autorizza a pensare che il tema della revisione del Fiscal compact sia più che mai sul tavolo in vista del vertice europeo di fine mese. Si prospetta un braccio di ferro dai contorni inconsueti tra i conservatori del Ppe e i socialisti del Pse.

Per difendere la sua immagine, a dispetto degli errori che ammette di aver commesso, Renzi punta all’accelerazione di tutto il pacchetto delle riforme e alla riforma del lavoro e della giustizia (temi molto sentiti dagli investitori esteri). Chiede anche ai sindacati di cambiare registro e li convoca a palazzo Chigi per aprire una trattativa. I suoi contestano anche il presunto calo degli iscritti del Pd, comunque fisiologico in un’epoca di declino delle ideologie, e lasciano intendere che non si faranno insabbiare nella discussione sul Jobs Act: se necessario il governo ricorrerà alla fiducia, proteste o non proteste dei dissidenti interni.

Complessivamente il premier sembra blindato all’interno del partito. A preoccuparlo è piuttosto il lento logoramento del patto del Nazareno. Le impreviste difficoltà incontrate da Silvio Berlusconi in Forza Italia hanno lasciato intendere che sui provvedimenti economici non saranno possibili intese, ma che le stesse riforme costituzionali potrebbero subire qualche contraccolpo.

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