La destra che non c’è pone una questione a sinistra: dobbiamo ricostruirla noi, nel senso di svuotarla (come pensa la squadra di Renzi), o dobbiamo lasciarlo fare a chi ha titolo, cioè ai forzisti e dintorni, sebbene privi del merito della prima ora?
Un mondo che, per dirla con Giuliano Urbani, l’ideologo della prima Forza Italia, dopo aver contrastato i comunisti che mangiavano i bambini ora deve riconoscere che è il bambino Renzi («la sola speranza del centrodestra») a mangiare i comunisti. C’è dunque del metodo nel pellegrinaggio del premier, icona pop, alle tv Mediaset, ultima tappa a Domenica live, il salotto dei bagliori effimeri di Barbara D’Urso e pure un pezzo di Paese reale. Non è un caso che in quella circostanza e davanti a quel pubblico, pigiando i tasti giusti, abbia annunciato il bonus bebè.
Questi sconfinamenti consenzienti in terre infedeli e fino a ieri proibitive per il centrosinistra fanno parte di una strategia: mentre Berlusconi, il contraente del patto del Nazareno, garantisce l’alleanza sulle riforme istituzionali e fornisce di fatto un appoggio esterno al governo, Renzi si premura di parlare alle massaie d’Italia, alla casalinga di Voghera nel tentativo di assaltare, assorbendola, l’ultima ridotta delle fedelissime del Cavaliere. Il premier ritiene di dover intestarsi questa operazione mimetica non solo per le sue capacità mediatiche o – come ha scritto Filippo Ceccarelli su “Repubblica” – per la sua piacioneria predatoria, ma perché il tempo stringe. Come ha detto ieri sera alla Direzione del Pd, tutto ha una velocità doppia rispetto al normale e allora un partito che fa: discute o legge gli editoriali?
La destra oggi è un campo di macerie, con il voto berlusconiano ai minimi termini e in libera uscita. Prima che un Grillo in perdita di velocità torni sul luogo del delitto, come ha fatto alle politiche del 2013 con un bottino eccellente nel campo dei moderati, occorre tendere la mano agli elettori berlusconiani. Tanto più che nel frattempo la Lega di Salvini, da padana fattasi lepenista, ha riempito il vuoto di una destra nazionalista e aggressiva. Lo spariglio a destra non è indifferente alla prospettiva del renzismo che intende andare oltre l’esperienza del Pd e in questo contesto va letta l’ipotesi della nascita del partito-Paese o partito-nazione. Con questo termine s’intende una formazione post ideologica, che si muove nella posizione centrale (ma non centrista) dello scacchiere politico e della società civile, capace di parlare a tutto il Paese, consapevole di svolgere una funzione maggioritaria, cioè di poter vincere da sola senza stampelle e cespugli, e mettendo nel conto di avere avversari a sinistra (Cgil e opposizione interna). In sostanza un partito pigliatutto e onnivoro, che già non piaceva a Nino Andreatta, l’architetto dell’Ulivo.
Non sarà una manovra né neutrale né indolore, tanto più che non aiutano lo stile disinvolto del premier e la sua interpretazione estrema del “partito del leader”, ovvero dell’uomo solo al comando. Probabilmente ne sapremo di più a fine settimana con la nuova Leopolda a Firenze: conosciamo i limiti della ditta bersaniana e la necessità di andare oltre quel recinto e il partito-Paese può essere una risposta da sinistra allo spirito del tempo, ma può anche risultare una casa d’accoglienza per il fritto misto da un’identità indeterminata.
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