Il declino politico di Berlusconi rischia di determinare la sparizione della destra che, allo stato, non sembra in grado di esprimere un’alternativa plausibile alla forza straripante di Matteo Renzi. Il “Patto del Nazzareno” ha, di fatto, provocato la desertificazione della destra italiana nella quale né Alfano né Fitto sono in grado di scalfire la tetragona intesa tra il premier e il Cavaliere.
Piaccia o no, a destra l’unica, vera novità è rappresentata da Matteo Salvini il quale ha il merito di avere rilanciato la Lega mettendo in atto un percorso, del tutto inedito, che si fonda sul ripudio di quella visione “padanocentrica” che ha danneggiato in modo letale qualunque ipotesi di riforma federale. Salvini ha raccolto il lascito di un partito allo sbando che avrebbe potuto rappresentare per il paese una vera forza riformista. Così non è stato, per motivi su cui sarebbe utile riflettere. L’unità nazionale ha rappresentato per la Lega una iattura della storia che, per decenni, avrebbe mortificato e vilipeso il popolo “padano”. Questa è la solfa che, per anni, dirigenti e militanti leghisti hanno ripetuto nella convinzione di rappresentare il solo elemento di purezza nel mondo turpe della politica. Nei cieli della politica italiana, tuttavia, non si trattava di una novità. Basti pensare al vecchio Pci. I militanti comunisti, infatti, hanno sempre vissuto con grande fierezza il “fattore K” e la “conventio ad excludendum” perché restare all’opposizione rappresentava una radicale contrapposizione al “sistema”, il rifiuto di ogni compromesso, il segno di una inconfutabile “diversità”. I fatti hanno poi dimostrato che, malgrado questo apparente isolamento, il partito comunista non disdegnava lucrare le laute prebende del sottogoverno. Così, mentre la base cantava il “sol dell’avvenire”, il partito consolidava il suo insediamento nelle amministrazioni locali e nei gangli strategici della burocrazia statale, dell’economia e della finanza (enti, banche, giornali, università).
Con il tempo, l’utopia rivoluzionaria aveva ceduto il passo al pragmatismo della “Realpolitik”, l’antico fervore palingenetico era stato soppiantato dall’accettazione di una rendita di posizione ritenuta utile alla causa: lo “splendido isolamento” pagava splendidamente. Per un ventennio, la Lega ha finito per somigliare al vecchio Pci, da cui ha mutuato tante cose: struttura organizzativa, armamentario ideologico, dominio delle piazze, tutto ciò nel quadro di una stretta compenetrazione con il potere, contemporaneamente esercitato e vituperato all’insegna dello slogan “Roma ladrona”, metafora di un federalismo morente che avrebbe potuto ben rappresentare una vera svolta per il paese.
A Matteo Salvini spetta, dunque il compito di ridare credibilità al progetto federalista conferendo alla Lega quella dimensione nazionale necessaria per una riforma dello Stato in senso “autenticamente” federale. Per fare questo questo, Matteo Salvini dovrà spiegare bene ai nuovi elettori che il centralismo resta un problema tuttora irrisolto del nostro paese; di contro, al suo vecchio elettorato, dovrà spiegare che federalismo deriva da “foedus”, che significa patto: e un patto unisce, non divide, come insegnano Usa e Germania.
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