Vengo dopo il Pd”, si potrebbe parafrasare una simpatica canzone di Renzo Arbore per fotografare lo stato dell’arte. Cosa verrà dopo il Pd? Questo non è difficile pronosticarlo. Una Cosa, appunto, l’ennesima Cosa di sinistra una fra le tante che abbiamo visto passare dopo il tramonto del vecchio Pci. Più complicato rispondere a un’altra domanda. E’ mai venuto, o meglio, arrivato il Pd? La somma dei due riformismi, quello cattolico e quello di sinistra, ha fatto il totale, per dirla alla Totò? Oppure si è avverata la profezia di Emanuele Macaluso, alfiere della sempre mal sopportata componente migliorista dell’ex Partitone Rosso che nel suo saggio “Al capolinea”, dato alle stampe mentre il Pd muoveva i primi già incerti passi, sottolineava come una forza nata da culture poltiche a fine corsa sarebbe fallita? Il crinale tra la prima e la seconda ipotesi è stato forse quel 4 dicembre, domenica in cui gli italiani peraltro animati da sentimenti che poco avevano a che fare con l’oggetto della questione, bocciarono il referendum sulle modifiche alla costituzione, punta di lancia del riformismo di marca renziana e forse proprio per questo condannato alla sconfitta.
Proprio unn bel guazzabuglio questo Pd dove le due culture politiche, pur se agonizzanti, si sono sempre messe in questi dieci anni le dita negli occhi. Ma forse sarebbero comunque riuscite a convivere o meglio a vivacchiare ancora se non fosse prevalsa una componente tanto umana quanto impropria in quella che dovrebbe essere la dialettica politica: il rancore personale. Vero che a sinistra si litiga e ci scinde da più di 150 anni, da quando cioè è venuta alla luce un’idea di sinistra. Com’è innegabile che da quelle parti è sempre stato attuale il motto del citatissimo Pietro Nenni, per cui arriva sempre uno più puro ad epurare un puro. Però tra gli ingredienti del velenoso cocktail della scissione, oltre alle divergenze politiche, al peso della legge elettorale trasfigurata dalla Corte Costituente, all’ineluttabile esigenza di mantenere le terga a contatto con le poltrone, all’uscita di scena del nemico Berlusconi, il collante più efficace del centrosinistra, quello più acido e forse predominante è il livore. Livoroso per vocazione e conformazione è Massimo D’Alema, anima della congiura. Addirittura lombrosiano nel suo esserlo, come sottolineava ieri mattina a Radio24 Mauro Corona che, a ragione, tira dentro tra gli attori della scissione anche il Marco Ezechia detto Cesare, medico, antropologo e giurista dell’800. Lombrosiana, per il rancore che emana è un’immagine simbolo del momento piddino con Emiliano di spalle e Renzi e Orfini che lo guatano. Forse da lì deriva il tentennamento del presidente della Regione Puglia. E non è rancore quello che tracima dalla frase di D’Alema per cui bisogna sostenere Gentiloni per logorare Renzi? Alla fine il nocciolo della scissione, al netto di una dialetta politica da social network, è tutto qui. Buttare giù dal trono, con il calcio dell’asino, il bulletto toscano scout che si credeva un nuovo Cavour e rischia di fare la fine del Fanfani con tutti, sia chiaro, i rieccolo. La colpa intendiamoci è anche di Matteo, incapace di smaltire la sbornia del 40% alle Europee e il conseguente devastante (per lui) delirio di onnipotenza. Non a caso ieri, su La Stampa, la Jena accomunava lui e l’ex lider Massimo: i gemelli dell’autogol.
Sullo sfondo, ma molto, resta l’eterna questione dell’impossibilità, in Italia, di costruire una vera e solida forza della sinistra riformista, quel riformismo con tutti si sciacquano la bocca e che potrebbe portare il Paese fuori dalle sabbie mobili. Ci tocca tenerci i mille rivoli figli delle scissioni, molti dei quali fuori dal tempo e dalla logica. Poi uno dice che si butta a destra. In questi casi Totò giganteggia.
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