Alla base dello sciopero indetto per oggi dai sindacati storici e di base, dalle associazioni professionali e dall’Unione degli studenti contro il Ddl “La Buona scuola”, sta uno zoccolo ideologico di pesanti accuse e di luoghi comuni: distruzione della scuola pubblica; privatizzazione e aziendalizzazione delle scuole; autoritarismo dei presidi e riduzione dei poteri dei Collegi.
Si tratta di uno sciopero politico-ideologico. L’ultimo fu contro la Gelmini del 30 ottobre 2008, ma la piattaforma è la stessa. L’attacco ostinato alla scuola pubblica, che il “renzusconismo”
perseguirebbe, si manifesta nel finanziamento alla scuola privata. Gli anni passano, ma la vulgata continua imperterrita a ridurre la scuola pubblica alla scuola statale e la Repubblica allo Stato. Dal 2000, in forza della legge n. 62 di Luigi Berlinguer, governante D’Alema, una scuola privata che rispetti determinati parametri statali è riconosciuta “paritaria”, cioè “pubblica”, come una scuola statale; dal 2001 sta scritto in Costituzione che lo Stato è solo una parte della Repubblica, non è tutta. Eppure, le lenti ideologiche deformanti impediscono di prenderne atto: dare soldi alla scuole paritarie, la cui esistenza fa risparmiare alla scuola statale svariati miliardi – un alunno statale costa oggi allo Stato 6.800 euro all’anno, un alunno paritario 463 euro -, è considerato attacco anticostituzionale alla scuola...pubblica.
Intanto, gli alunni delle paritarie in Italia, oggi al 12%, continuano a diminuire, mentre nella Francia anticlericale e giacobina sono al 20%. La verità sta da una parte, gli slogan e le piattaforme sulla privatizzazione dalla parte opposta. Ma anche pretendere di valutare le scuole non equivale forse alla privatizzazione aziendalistica delle scuole? A quanto pare, verificare se le risorse umane e finanziarie vengano utilizzate in modo efficiente ed efficace è aziendalismo, subalterno al capitale. Eppure se l’azienda trova nel mercato un giudice esterno inesorabile, anche la scuola deve averne uno: lo Stato. Il quale deve valutare i risultati delle scuole, degli insegnanti, dei presidi, per difendere gli interessi dei ragazzi.
I nostri furbeschi eroi dello sciopero lo hanno indetto proprio il giorno in cui si dovevano svolgere le prove Invalsi così da farle saltare. O pensavano, sindacalmente, al ponte lungo di maggio? Il “no all’aziendalismo” è semplicemente il rifiuto di rendere conto alle famiglie e al Paese dell’uso dei soldi pubblici.
Ma il cuore dello sciopero è la contestazione del tentativo di scuotere il sistema di potere e di irresponsabilità all’interno delle scuole, quale è stato configurato dalla Legge delega del 1973, seguita dai cinque Decreti delegati del 1974. Al modello centralistico verticale si sostituì, allora, sull’onda del ’68, il modello assembleare e parlamentare: il preside continuava ad essere designato dall’alto, ma la sua azione era/é totalmente controllata dal basso, dal Collegio dei docenti. All’interno del quale si affermarono le Rsu, che hanno progressivamente occupato il terreno delle materie estranee alle loro competenze, esondando dalla difesa legittima degli interessi dei lavoratori alla pretesa di decidere quale scuola per quale Paese. E questo è mestiere del Parlamento, non dei sindacati.
Insomma: chi deve comandare e decidere nella scuola? Questa è la posta in gioco dello sciopero politico. Le giuste rivendicazioni salariali sembrano divenute secondarie. Alla radice sta un dogma: che gli interessi dei “lavoratori della conoscenza” coincidano automaticamente con quelli dei ragazzi, delle famiglie, delle comunità locali, del Paese. Il che è palesemente falso. Intanto, quella pretesa ha trasformato i sindacati della scuola in corporazioni conservatrici dello stato di cose presente: il “comunismo” è finito da tempo, al suo posto si è diffuso un triste “luogo-comunismo” di granitiche certezze, mentre il mondo gira in direzione opposta.
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