Il caso Etruria, l’insediamento di Macron e la sorprendente sconfitta della Spd nelle elezioni nel Nord Reno-Westfalia, che confermano l’agonia della socialdemocrazia europea (un paradosso se si pensa che il movimento socialista nacque e si sviluppò per affermare quei diritti che la crisi e altri fattori stanno rimettendo in discussione), hanno fatto passare in secondo piano una notizia ancora più clamorosa:il probabile addio di Bossi dalla Lega. Il fondatore del movimento politico italiano più vecchio che, a lungo, si è identificato in lui è pronto a lasciarlo dopo la netta affermazione di Matteo Salvini alle primarie.
È chiaro da tempo che l’attuale segretario elabora e interpreta una linea politica sempre più distante della quella della Lega originaria, ma c’è un aspetto che fa specie ed è ormai diventato caratteristico della politica di oggi. Le idee, che una volta erano elaborate dagli organismi dirigenti dei partiti (persino nel vecchio Pci del centralismo democratico), ora sono monopolio di un uomo solo, il leader. E allora quelli che in passato erano i congressi, dove si discuteva, si lottava, si tramava, si presentavano mozioni politiche sono stati sostituiti dai gazebo. In un’imitazione distorta delle primarie per la scelta del candidato alla presidenza degli Usa, i militanti e simpatizzanti dei partiti, sono invitati a eleggere un leader che acquisisce così una sorta di onnipotenza nel partito; gli oppositori hanno due alternative: o rimanere in un ruolo del tutto ininfluente o sbattere la porta senza lasciare rimpianti, come sembra si accinga a fare Umberto Bossi. Succede nella Lega con Salvini, è accaduto nel Pd con Renzi. Altrove, in Forza Italia per esempio, neppure c’è bisogno di scomodarsi ad allestire le primarie: tanto si sa già chi comanda e comanderà ancora.
Per carità anche tanti congressi della Prima Repubblica, finivano per diventare finzioni sceniche come quelli che acclamavano Bettino Craxi alla guida del Psi senza o quasi avversari. Lì almeno però il leader era costretto a confrontare la sua linea, anche se vincente in partenza, con le altre. Vi sono stati congressi politici che hanno inciso sulla storia del nostro paese: quelli del passaggio dal Pci al Pds dopo la caduta del Muro di Berlino con le lacrime di un Occhetto sfiancato dopo la relazione e quindi tradito nel segreto dell’urna per i voto sul nuovo segretario. O quello del Psi in cui fu siglato, in un camper, lo sciagurato patto di potere del Caf (Craxi, Andreotti e Forlani), destinato a infrangersi sugli scogli di Tangentopoli. Oppure le assise della Dc nel 1964 in cui un torrenziale e criptico intervento di Aldo Moro condusse il partito alla svolta dell’apertura ai socialisti nella maggioranza di governo. Si potrebbero anche citare la kermesse di Fiuggi che segnò la fine del Msi post fascista e quella che portò alla nascita del Pd.
Scelte a volte epocali, come può considerato l’uscita di Bossi dalla Lega, ma scaturite da discussioni, elaborazioni, appassionate e anche sofferte. Invece la discesa di Bossi da quel Carroccio che aveva costruito con la proprie mane è stata determinata da una rapida consultazione ai gazebo. Dà un po’ da pensare. Perché se i tempi che stiamo vivendo hanno indotto la politica come tutto ad accelerare i propri ritmi, l’hanno anche impoverita sul piano culturale e su quello dei contenuti. E un politica senza contenuti è solo un ridondare di slogan vuoti che non assolvono alla missione principe e alta della politica, quella di migliorare le condizioni della società.
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