Più che un termometro oggettivo della ripresa, il dato è un segnale di speranza, una testimonianza di vitalità. Sì perché stiamo parlando di uno zero virgola in più nell’ultimo trimestre. Un nulla o quasi dal punto di vista aritmetico. Ma un segno più nel saldo anagrafico delle imprese significa tanto, tantissimo in un territorio che, non senza fatica e contraddizioni, sta cambiando il proprio profilo socio-economico, forse in modo irreversibile.
In termini assoluti stiamo parlando di circa 600 nuove imprese nel secondo trimestre di quest’anno. Non è un dato, in sé, sufficiente a raccontare di una svolta, qualcosa però più o meno in profondità sta accadendo.
Chi ama guardare sempre il bicchiere mezzo vuoto sarà già lì a spiegarcela che in un contesto come quello di oggi, imprenditori tante volte si diventa per necessità, qualche volta per disperazione dopo avere perso il posto magari in età avanzata. Sì, vero, il fenomeno è concreto e non può non avere attraversato l’esperienza diretta di ciascuno di noi. Altrettanto concreta è l’incidenza, in questo risveglio del fare impresa, degli immigrati dai Paesi extra Ue. La tendenza è tangibile nel settore commerciale, guarda caso quello che ha registrato il maggiore aumento di attività, dove negli ultimi anni è esploso il numero degli imprenditori stranieri. Ci sono settori, tanto nelle città quanto nei paesi più piccoli e isolati, di loro esclusivo appannaggio.
Il dato a qualcuno può non piacere, racconta però di una società che è diventata da sé - a dispetto di un dibattito pubblico sull’integrazione che spesso sembra degno dell’età della pietra - ricca, complessa, articolata.
Ma cosa significa fare impresa e per quale ragione è giusto sostenere che nel desiderio di intraprendere risiede uno dei fattori di maggiore forza della nostra comunità? Qualche possibile risposta si trova in parole come creatività, innovazione e responsabilità. E anche passione e capacità di perseguire obiettivi di interesse generale al di là della legittima ricerca del profitto. L’espressione cultura di impresa ha molto a che fare con questi concetti sia nel caso della start up che opera nel settore dell’innovazione tecnologica, sia nel caso del bar aperto magari con i soldi della liquidazione. I valori delle imprese sono quelli di una società, la nostra, che mette al primo posto il lavoro e le persone.
In Italia, anche in un contesto avanzato qual è il nostro, le istituzioni pubbliche il più delle volte sono un nemico della cultura di impresa. Inefficienza della politica, enormità della burocrazia, diffusione a tutti i livelli dell’illegalità, esosità del fisco rappresentano quattro croniche insidie e allo stesso tempo sono i campi su cui ci giochiamo il futuro. O si cambia su questo o finiremo in pochi anni alla periferia delle periferie di un mondo che già ci considera come una sorta di rari fossili.
Le cronache non inducono all’ottimismo. Siamo la città del muro sul lungolago in cui la sistemazione provvisoria della passeggiata è considerata un vero e proprio miracolo piovuto dal cielo.
Paghiamo, qui in una delle zone più densamente industrializzate d’Europa, un pauroso deficit a livello di infrastrutture, autentica palla al piede per la produttività delle nostre aziende.
Siamo il Paese delle eterne emergenze dove la capitale nazionale è sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo perché non riesce a garantire ai suoi cittadini servizi minimi come un’ordinata raccolta dei rifiuti e la fornitura dell’acqua corrente.
Verrebbe voglia di chiudere bottega e trasferirsi nei Paesi dell’Est come fanno tanti pensionati comaschi. Eppure lo dicono anche i numeri, prevale il desiderio di resistere e provare, nonostante tutto, a credere che il futuro sia qui.
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