Diffidare sempre di quelli che Sciascia chiamava professionisti dell’antimafia, compresa la gente che ha fatto fortuna con il copia-incolla di sentenze diventati successi editoriali.
E non dimenticare mai l’umanità che lo scrittore siciliano sapeva trovare in tutti i “cristiani”, come dicono loro. Altrimenti non sarà mai possibile comprendere storie e vicende come quella del tizio che vent’anni fa, il giorno dopo la Notte di San Vito - secondo Ilda Boccassini nient’altro che la prima parte di una storia proseguita con il blitz di ieri - si presentò in redazione a lamentarsi
perché a differenza di quanto diceva la copia di giornale che teneva in mano non era stato (ancora) arrestato. I colleghi, increduli più di lui, gli dissero con una punta di viltà di chiedere informazioni in questura e lui lo fece. Nel calderone di quei 360 arresti finirono tanti futuri ergastolani ma anche decine di persone assolte poi in primo o secondo grado e non sapremmo più dire se l’”arrestato a sua insaputa” fu riconosciuto colpevole o innocente.
Di sicuro l’arrivo del primo processo antimafia in provincia di Como rivelò tante incongruenze, rispetto all’immagine stereotipata che al Nord ci si può fare di una cosca mafiosa. A cominciare dall’esistenza di un’umanità dolente, talvolta semi-analfabeta o analfabeta del tutto che fino ad allora sembrava abitare soltanto i libri di Sciascia. Invece esiste ancora oggi e vive qui: «Chi non sa scrivere tracci il segno del partito» ordina senza congiuntivo il capo della “locale” di Mariano Comense nella penultima intercettazione antimafia.
I cronisti di giudiziaria cominciarono a conoscere imputati che a differenza dei loro referenti politici non minacciavano querela e seguivano a modo loro un codice di comportamento. Tanta gente che non faceva paura ma piuttosto tristezza perché sprovvista dei requisiti minimi, dell’attrezzatura culturale, psicologica e professionale per vivere onestamente e dunque si arrangiava come poteva in un mondo troppo complicato, cioè chiedendo aiuto all’unica vera società di mutuo soccorso che faceva qualcosa per loro.
Una consapevolezza che è anche un rimpianto. Perché se da vent’anni in qua secondo la coordinatrice del pool antimafia non è cambiato nulla e anzi la ‘ndrangheta lombarda si è rafforzata, è colpa del più pericoloso dei latitanti, lo Stato.
Le ‘ndrine calabresi, dice l’ordinanza notificata ieri a 38 persone tra Como, Lecco e Monza, in tutto questo tempo hanno raggiunto una forma federale che ha risolto i conflitti di interessi interni. Inoltre la casa madre del Reggino ha accettato il progressivo affrancamento della “Lombarda” con lo stesso orgoglio con cui la vecchia Inghilterra ha salutato le luminose sorti e progressive dell’America. La ‘ndrangheta si è dotata perfino di una specie di forma costituzionale con tanto di presidenza della Repubblica, il cosiddetto “Crimine”. E come ci siamo detti tante volte sta facendo ottimi affari grazie alle infiltrazioni e alla complicità di una fetta di classe politica e borghesia professionale del posto, dall’avvocato all’ingegnere, dall’assessore all’urbanistica all’impiegato dell’Agenzia delle entrate.
Il modo migliore per sovvertire questa progressione geometrica doveva cominciare quarant’anni fa sui banchi delle nostre scuole, dando una mano ai figli dei poveracci, disadattati fin dalle medie se non prima, aiutandoli a trovare strade percorribili per un futuro normale. Ma l’assistenza sociale, da noi, è sempre stata fatta di pensioni false, non di percorsi formativi in grado di fornire un lavoro e la cultura dell’onestà.
E così i nipoti dei primi ‘ndranghetisti fanno la stessa fatica dei nonni a confrontarsi con il mondo che non porta pistole. Quelle sì che le usano con mestiere: 500 le estorsioni, le intimidazioni, i recuperi-credito a mano armata contestati fra Como e Lecco in questa inchiesta. Perché, come insegnava Sciascia, ci si può commuovere perfino davanti ai picciotti ma non esiste una mafia buona e una mafia cattiva. Esistono gli uomini e i quaquaraquà, come esiste l’Antistato perché lo Stato non funziona.
Ci si può consolare pensando che il blitz di ieri dimostri o provi a dimostrare il contrario. Ma al di là dell’impegno di chi ha lavorato a quest’inchiesta e a tutte quelle che l’hanno preceduta, delle tante condanne passate in giudicato grazie all’impegno del partito più grande che c’è - quello degli onesti - corre l’obbligo di ricordare che la soluzione militare non porta frutti nemmeno in Israele. Figuriamoci da queste parti.
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