Il fascismo. L’antifascismo. La retorica dell’antifascismo. Le vestali, i cantori, le prefiche, i ventriloqui, i catoni, i soloni, i tromboni dell’antifascismo. I fascisti che si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti (Longanesi). Gli appelli alla nazione. Le adunate oceaniche. Le bandiere rosse. I partigiani. Le teste rasate. Gli analfabeti con le teste rasate. Gli avverbi. Gli aggettivi. I superlativi. L’invasione degli Hyksos da respingere sul bagnasciuga. La parentesi di una storia che veleggia invece verso le sue magnifiche sorti e progressive.
Siamo alla fine del 2017 ed è di nuovo allarme fascismo. Roba fresca. Soprattutto dopo aver scoperto da uno studio, probabilmente elaborato dopo un passaggio in fiaschetteria e pubblicato da un autorevolissimo giornalone, che un italiano su due, quando si sveglia la mattina, inizia a tremare per il ritorno del fascismo. Tutto vero. Per trenta milioni di persone il problema numero uno della loro vita è l’avvento imminente degli eredi del duce. E quindi grandi appelli a studiarlo nelle scuole per far capire bene ai nostri ragazzi a quali e quanti pericoli siano esposti. Ora, come è noto, il fascismo si analizza a scuola e nelle università da mezzo secolo e questo naturalmente non solo va bene, va benissimo. Se poi l’ottanta per cento dei testi non fosse sdraiato sulla vulgata retorico-moralista-resistenziale sarebbe pure meglio e se magari si studiassero come si deve anche i gulag, le foibe e la genesi delle Brigate Rosse sarebbe addirittura perfetto. E già che ci siamo, si potrebbe pure spiegare ai ragazzi come mai siano ancora visti con estremo sospetto autori come Pound (che non è famoso solo per la Casa) o Céline e invece si permetta ad Adriano Sofri, condannato in via definitiva a 22 anni come mandante dell’omicidio Calabresi - mandante dell’omicidio Calabresi! - di sdottoreggiare su giornali e tv sull’iniquità del mondo capitalistico. Ma questi sono dettagli.
Detto ciò, ma è sempre meglio ricordarlo, visto che viviamo nella repubblica dei tartufi, il problema non è aver preso sottogamba il pericolo neofascista, ma al contrario, come sostiene un intellettuale libero del livello di Massimo Fini, questo accanimento tutto mediatico e tutto politico in vista delle elezioni che non serve ad altro che a rinfocolarlo. A nessuno può essere vietato di pensare quello che vuole, anche se fosse la cosa più abominevole del mondo, perché così facendo le democrazie ingabbiano il libero pensiero e svelano quel volto autoritario di cui da sempre accusano i totalitarismi. Principi di cultura liberale: il modo più sbagliato per evitare a uno di diventare fascista è proibirglielo per legge.
Ma anche se togliessimo definitivamente di mezzo questa parola, che oggi fa ridere, è vero che il pericolo di una deriva violenta e intollerante esiste e sarebbe sciocco negarlo. E allora potrebbe essere utile studiare le radici storiche, culturali e sociali dei regimi degli anni Venti e Trenta. Se lo si facesse con un minimo di spirito critico e senza paraocchi, si capirebbe che il fascismo raccolse consensi ampissimi in larghi strati della popolazione e, almeno nella fase iniziale, del ceto intellettuale - Croce, Einaudi, Amendola, Rossi, Pirandello, giusto per fare qualche nome - perché rispondeva a pulsioni ed istanze soprattutto psicologiche profondissime. E che stanno tutte nel trauma del dopoguerra, quando il fronte socialista commise il più imperdonabile degli errori, individuando nei reduci, nei combattenti e nei produttori l’unico male della nazione. Tutti soggetti che per anni vennero insultati, perseguitati, irrisi e sputacchiati come servi del potere imperialistico e che invece erano persone che nel conflitto bellico avevano perso tutto, amici, fratelli, speranze, e che credevano nello Stato e nella Patria. La demonizzazione della media e piccola borghesia da parte di chi voleva instaurare il paradiso bolscevico in terra ha fatto scivolare milioni di italiani verso quell’entità montante che ne difendeva invece, almeno a parole, i diritti. Questo è il punto. Questa la radice di un movimento che non casca giù dal pero, non sgorga dall’iperuranio, non era composto solo da brutti, sporchi, cattivi, assassini, ma da vaste fasce di una popolazione - anche quella cattolica: ci ricordiamo cosa volevano fare della Chiesa i comunisti di quegli anni? - che ha visto in pericolo la propria esistenza.
Ora, cosa può significare tutta questa cosa oggi? Una lezione. Una pedagogia. La visione ideologica della realtà - noi: democratici, tutti quelli che non la pensano come noi: fascisti - la falsifica sempre. La visione moralistica della politica – noi: puri in quanto antropologicamente superiori, tutti quelli che non la pensano come noi: farabutti - fa perdere il contatto con il popolo. La criminalizzazione di larga parte degli italiani - imprenditori, professionisti, partite Iva, giovani disimpegnati - e l’incomprensione di quali siano i temi davvero centrali per la loro esistenza - lavoro, sicurezza, tasse, burocrazia - non fa altro che spingerli verso i partiti di centrodestra o verso forme di protesta anarcoide alla 5 Stelle oppure, nei casi di maggior degrado urbano, sociale ed economico, verso gruppi di matrice eversiva.
È questa l’unica cosa che torna, da tanti decenni fa, sulla scena di oggi, non certo le bischerate di quattro ducetti da osteria.
Questa e non altro. Ma purtroppo la faziosità, l’arroganza, l’incapacità di mettersi nei panni degli altri, l’asservimento al pensiero unico impedisce la comprensione di tutto quello che è altro da te e che viene quindi ridotto a sinopia del male assoluto, a demone, a mostro: fascismo, craxismo, berlusconismo, grillismo, populismo. Torniamo sempre lì. È il “purismo” il peggior pericolo per la sinistra, non il fascismo. Anche perché poi, come diceva quello là, se fai la gara a chi è più puro, alla fine arriva sempre uno più puro che ti epura.
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