Società liquida
e partiti liquidi

Un anno di governo rappresenta un arco temporale sufficientemente plausibile per tracciare un primo consuntivo sull’azione di governo e sull’efficacia delle riforme finora varate. La sensazione é che, malgrado l’ondata di annunci e di tweet degli ultimi mesi, la situazione generale non sia molto diversa dal passato. In attesa di verificare l’impatto economico del Jobs act che, allo stato, resta l’unica, vera grande riforma del governo Renzi, permane nel corpo sociale un clima di grave incertezza.

Malgrado l’uscita di scena del Cavaliere, anche il quadro politico continua ad essere caratterizzato da una grande conflittualità che il temperamento del premier non aiuta certamente a placare. Come Berlusconi, anche Matteo Renzi ha bisogno di alzare la temperatura politica del paese per esaltare le sue doti di abile comunicatore e tenere alta la tensione nell’opinione pubblica.

Occorre ammettere che il premier resta un uomo di scontro che usa ricorrere alla mediazione solo per riaffermare il suo primato. Nel suo universo simbolico, infatti, ogni altro tipo di mediazione è sinonimo di cedimento: nulla di più estraneo alla sua indole. Da qui, le sue alleanze a geometria variabile e l’uso accorto e sagace della decretazione d’urgenza in talune materie ritenute “sensibili” dal punto di vista mediatico. Pertanto, esistono fondate ragioni per ritenere che ci troviamo nuovamente impantanati in una fase politica che è destinata a perpetuare le fibrillazioni del ventennio berlusconiano. Piaccia o no, la verità è che l’unico, vero cambiamento avvenuto ha per oggetto la topografia del conflitto che si è spostato nel perimetro interno ai partiti i quali, in questo modo, stanno solo conferendo una dissennata accelerazione alla loro definitiva dissoluzione. Dovremmo riflettere su un dato: il primato della politica rivendicato dal premier sta producendo, di fatto, la definitiva capitolazione della politica che, senza i partiti, si riduce ad un guscio vuoto che ha vitale bisogno di essere riempito dal carisma dei leader. In questo senso, risultano sempre più evanescenti le differenze tra destra e sinistra, ormai identificabili solo nello stile dei leader, dei loro slogan e della loro abilità comunicativa. Percepiti dall’elettorato come macchine obsolete prive di un’autentica capacità distintiva, i partiti stanno riproducendo al loro interno le molteplici contraddizioni di una società che la crisi economica ha reso sempre più frammentata e molecolare. Come dire, una società liquida ha finito per rendere liquidi anche i partiti la cui identità si è legata inscindibilmente al temperamento del loro leader, unico elemento “solido” di un’entità ormai divenuta, sul piano politico, irrilevante ed eterea. Oggi, tutti i partiti sono accomunati dall’esistenza di lotte intestine, travestite da correnti, che i leader tendono a gradire: tutti contro tutti, all’insegna di un potere di veto che, in realtà, è spesso un vero e proprio potere di ricatto.

Anche per questo motivo, certi minuscoli personaggi che abitano i bassifondi della politica, hanno bisogno di riconoscersi in un leader (“bersaniani”, “renziani”, “alfaniani”, ecc.) per poter vantare un’identità altrimenti inesistente. Anche di questo si compone il populismo, malattia senile delle democrazie.

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