La solitudine inizia a quarant’anni. E’ in quel momento che cambia tutto: in quella stagione della vita cominciamo a invecchiare. E più invecchiamo, più trascorriamo il tempo con la persona che vediamo allo specchio. Noi stessi. Si inizia a dedicare meno tempo ai colleghi, ai parenti, agli amici e a perdere contatto – inevitabile, amarissimo – con i figli. Si comincia a essere soli con se stessi. E se Leonardo scrive che “ se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo”, per Paul Valéry, invece, “un uomo solo è sempre in cattiva compagnia”. Scuole di pensiero.
Sono i risultati di uno studio del Dipartimento del lavoro statunitense, che ha incrociato i dati del censimento sulla popolazione americana tra il 2003 e il 2015. Secondo i ricercatori che lo hanno realizzato, attorno ai trent’anni accadono due eventi decisivi, ma anche ovvi: cala il tempo trascorso con gli amici e aumenta in senso inversamente proporzionale quello occupato dai figli. A sessanta si smette di uscire con i colleghi d’ufficio per stare di più con il partner e questo, a detta dei soliti spiritosoni, è uno dei motivi principali della tristezza congenita della terza età. A quaranta, ed eccoci al punto, crolla il tempo dedicato ai figli, che nel frattempo sono diventati adolescenti con tanto di tatuaggio, cellulare e cuffiette, e si impenna in maniera impetuosa quello dedicato a sé. E lì, a quanto pare, iniziano i problemi.
In una società bolsa, irresponsabile e cellulitica come la nostra, il vero trauma dei quarantenni non pare legato a drammi personali, professionali o familiari, quanto invece all’essere obbligati a dover ragionare sul non essere più giovani, non poter più fare i ragazzini, i bamboccioni, i tiratardi. E il fatto che esploda proprio allora in larga parte di quella fascia anagrafica la nevrosi sportiva da corsa, da bici, da palestra e similari non testimonia tanto la volontà di restare in forma, quanto il tentativo un po’ grottesco di andare avanti a fare quelle cose legate alla più spensierata delle stagioni. All’improvviso ci si trova di fronte al tipico dilemma di quelli in mezzo al guado - chi sono? che faccio? dove vado? - ai primi bilanci esistenziali, all’approssimarsi, magari fra pochi anni, magari fra alcuni decenni, ma questo è poco importante, della resa dei conti, quella vera, e della totale impreparazione ad affrontarla, la lista delle occasioni perse, degli attimi fuggiti, delle delusioni subìte e di quelle causate agli altri. Insomma, tutta questa roba qui. E’ vero che ci sono anche gli aspetti positivi: si selezionano meglio le relazioni, si fa piazza pulita di tanta fuffa, si perde meno tempo con i tic e i birignao dell’adolescenza, si evitano i luoghi troppo affollati, ci si concentra sulle cose che danno veramente gratificazione – quel libro, quel film, quella passione - si inizia a essere saggi, a perdonare, oltre che a chiedere perdono, eccetera eccetera eccetera.
Ma è questa è solo statistica. Sono solo numeri. Perché è vero il contrario. La solitudine non è un momento specifico della vita degli uomini, legato a una stagione determinata, a un evento topico, a un rito di passaggio, quanto invece la sua essenza, la sua radice, la sua natura. Si nasce soli, si vive soli, si muore soli, diceva quello là. E aveva ragione. In fondo, se uno ci pensa bene, ognuno di noi è sempre solo di fronte agli accadimenti dell’esistenza, così come solitarie sono le sue scelte, per quanto possano essere state consigliate o suggerite. Se hai preso una decisione, l’hai presa tu. Se hai sbagliato tutto, hai sbagliato tu. Tu solo. È vero che l’uomo è animale sociale e tutta la storia della nostra civiltà è intessuta dai legami, dalle relazioni, dai riti della famiglia, del gruppo, del villaggio, del sangue, della patria, della fede. Questo fa parte della nostra cultura e sappiamo bene quanto le comunità sane siano fondamentali per proteggere i propri componenti, specie quelli più deboli e indifesi, così come è di grande conforto sapere che esista una rete di protezione, perché la vita diventa durissima quando viene a mancare. Però questa è una sovrastruttura che ovatta e ammortizza, ma non cambia la natura più profonda del nostro stare al mondo. Ci sono pagine magnifiche e terribili sul panico dell’uomo - anche il più credente degli uomini - di fronte all’esistenza, alle sue tragedie e, soprattutto, al suo senso. Essere stato gettato a tua insaputa dentro la vita è una vertigine che ti può cogliere a quindici anni, così come a trenta, a cinquanta o a novanta. La cognizione del dolore non è figlia di un evento tragico, ma carne viva del tuo essere. Pensate a cosa succede nel giorno del lutto più grave. La comunità si raccoglie, condivide con sincerità la tua sofferenza - perché qualcuno l’ha già vissuta, perché qualcuno sa che la vivrà - e ognuno dà il meglio di sé per farti sentire parte integrante di un’umanità che comprende e accoglie. Poi però, quando l’ultimo abbraccio è stato stretto, l’ultimo messaggio è stato ricevuto, l’ultima consolazione è stata evocata, l’ultima carezza è stata donata, l’ultima pagina di un antico maestro ha regalato un soffio di saggezza e di dolce abbandono alla provvidenza, quando l’ultima luce è stata spenta e tutto diventa buio - e quel momento arriva, spietato, e non c’è modo di evitarlo - allora sei solo tu con il tuo dolore, solo, solo, solissimo, l’essere più solo al mondo, come quando sei uscito dal ventre di tua madre, come quando entrerai nel sepolcro. È quello il campo di battaglia e non ci sono armate o alleati a coprirti le spalle. La solitudine inizia con il primo vagito e va avanti fino all’ultimo respiro.
A chi pensa che inizi solo a quarant’anni forse è sfuggito qualcosa. Di certo, è sfuggito il senso del celebre aforisma di Blaise Pascal, grande filosofo e cattolico profondissimo: “Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa: dal non sapere starsene da solo dentro una stanza”.
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