Il centenario di Antonio Sant’Elia è servito, se non altro, a riflettere di nuovo sulla sua idea di megalopoli concentrata, una supercittà-macchina dove fra colossi dell’edilizia abitativa si scatena il movimento continuo di veicoli e persone in direzioni diverse, accomunati soltanto dalla febbre vitalistica che è il suggello della modernità novecentesca.
Non mi sembra casuale che una mostra dedicata a questa utopia tecnicistica santeliana si chiuda alla Triennale di Milano per far posto oggi idealmente ad un appuntamento espositivo dedicato ad un altro grande comasco, Francesco Somaini, in specie per una serie di opere scultoree create negli anni settanta come interventi di grande potenza trasformatrice dentro una metropoli contemporanea, non solo la New York dei grattacieli che pure gli diede lo stimolo iniziale.
Al progetto, materializzato in sculture, disegni a china e fotomontaggi di sorprendente impatto emotivo, Somaini dedicò anche un volume, compilato insieme ad un critico che lo aveva seguito durante questa ricerca nel paesaggio urbano, Enrico Crispolti (“Urgenza nella città”, Mazzotta, Milano 1972). L’artista si è occupato più volte di interventi in campo urbano, anche per piazza Cavour e dintorni dove però ha dovuto arrendersi al solito immobilismo comasco. L’occasione di quella lontana stagione newyorchese fu particolarmente, oserei dire violentemente feconda per la penetrante, irradiante manipolazione di forme insieme plastiche e architettoniche, spinta fino all’iperbole surreale. L’esito fu tale da condensare in una volta sola una maggiore comprensione del significato che Somaini, nella sua fase più matura, intendeva dare al suo lavoro, uscendo definitivamente da un periodo in cui aveva dato spazio all’astrazione e all’informale, con una più spiccata libertà di trattamento materico.
Qui la materia diventa un duttile elemento di esaltazione dell’uomo nella sua totalità, di corpo e di anima, con un’aggiunta che negli ultimi anni si va facendo determinante, la consapevolezza del suo destino. Sono significati altissimi, che le opere comunicano con ben più chiarezza che le descrizioni. Cominciamo con l’osservare che, in questo caso, l’autore tende ad inserire fra le costruzioni inanimate di una grande città sculture che modellano le parti vive di un corpo umano, adattate a servire da connessione, da passaggio, da variazione in palpabili viscere di organismi architettonici. Somaini le chiama “carnificazioni”. Non sono inserimenti plastici con qualche intenzione ornamentale, ma funzionali parti costruttive di una città abitata, gallerie, passaggi coperti, gradinate, percorsi stradali «rivalutati come luoghi di commercio sociale» ovvero adeguati al passaggio costante di persone che sentano meglio la presenza di un ambiente pensato per loro, addirittura sagomato su di loro, attraverso di loro, con sangue e carne loro.
Nello stesso tempo in cui lo scultore s’immerge nell’intimo dell’uomo ne rappresenta l’identità fondendola con quella della metropoli: l’insieme urbano è il luogo dove l’uomo vive, ama, soffre, gioisce, lavora, le sculture divenute “carnificazioni” devono rispecchiarne la natura, ma anche indicarne la storia, il motivo del suo essere nel mondo. Ed ecco l’insorgere del secondo livello di esplicazione dell’arte di Somaini, il mito che esce dall’attualità per proiettarsi in un tempo infinito. I grandi oggetti umanizzati, che s’infilano fra strade e piazze di una città, sono anche enigmatici simboli di un’umanità che ha un principio e una fine esistenziale, ma che ha saputo con l’arte elevarsi fin dall’antichità a celebrare le risorse eterne dello spirito. Che sono immortali, come suggeriscono anche le ardite archisculture di un eccellente artista di casa nostra riproposte a Milano.
© RIPRODUZIONE RISERVATA