Il mandato di Matteo Renzi si avvia sotto una buona stella internazionale. La sostanziale promozione del suo programma da parte del Fondo Monetario dimostra che la “staffetta” italiana è vissuta per ora dagli organismi della finanza mondiale con un misto di speranza e di curiosità. Ma il premier, come ha detto Christine Lagarde, è comunque atteso alla prova dei fatti, soprattutto sulla riforma del lavoro, giudicata essenziale per una vera ripresa.
Questo è il motivo per il quale il «rottamatore» non accetta interferenze quantomeno ambigue nella delicatissima fase di lancio del nuovo esecutivo. La brusca telefonata intercorsa con il sindaco di Roma Ignazio Marino, che aveva minacciato di bloccare la Capitale e di non pagare gli stipendi dopo il ritiro del decreto «salva-Roma» è il segnale delle difficoltà contro cui dovrà lottare. In direzione Pd, Renzi ha criticato i toni di Marino, lasciando capire che alle spalle dello scontro c’è qualcosa di più. Essendo evidentemente impensabile che il governo possa lasciar fallire il Campidoglio, per di più in un momento come questo, la spiegazione della “sparata” di Marino deve essere ricondotta ad altri motivi (qualcuno ipotizza alle privatizzazioni degli enti capitolini). Il segretario del Pd ha detto implicitamente di non accettare condizionamenti nemmeno da parte del “partito dei sindaci” del resto già ben rappresentato al governo.
Ma soprattutto il premier intende mettere il suo sigillo su un nuovo modo di fare politica. Per una sorta di eterogenesi dei fini, l’ingresso del Pd nel Pse avviene sotto la guida di un erede della tradizione democristiana, un traguardo che invece era stato sempre negato ai leader ex comunisti. Superate anche le resistenze degli ex popolari (con l’eccezione di Beppe Fioroni), Renzi giudica l’adesione al Pse un «punto di partenza» Che cosa significa? Certamente non una volontà di «morire socialdemocratico» ma piuttosto di imporre sullo scenario europeo quel «cambio di passo» preannunciato anche per le politiche economiche. Non è un caso che l’integrazione sempre maggiore con Bruxelles sia pensata come un modo per sedere al tavolo europeo senza condizionamenti euroscettici ma anche con la libertà di parlare di un altro modello di sviluppo, di taglio chiaramente antiausterity, dunque antimerkeliano.
E intanto l’agenda renziana si arricchisce di altri punti fermi. Il varo della delega fiscale è un punto di forza; l’avvio delle votazioni alla Camera la settimana prossima sulla nuova legge elettorale sblocca l’impasse delle riforme . In questo quadro la minoranza interna vede restringersi i suoi spazi: la rete di centrosinistra immaginata da Pippo Civati insieme a vendoliani ed ex 5 stelle dovrà forzatamente tenere conto delle mutate condizioni. In altre parole, esattamente come l’opposizione di centrodestra, l’unica tattica è quella di vedere se il governo manterrà fede alle promesse perché le divisioni ideologiche hanno fatto il loro tempo e l’opinione pubblica non gradisce i litigi stile Unione.
Un atteggiamento che mette in difficoltà anche Beppe Grillo, costretto a scendere sul piano dell’insulto apodittico . In fondo anche lo psicodramma delle espulsioni nasce dai giudizi critici formulati dai suoi sull’ esito dell’incontro con il rottamatore.
© RIPRODUZIONE RISERVATA