In una delle pagine più amare e malinconiche dei “Malavoglia”, Giovanni Verga tratteggia, con brevi tocchi magistrali, la nostra condizione umana eterna e immutabile, l’impossibilità di conoscere la vita, di capirne le trame segrete e, soprattutto, di poter essere padroni del nostro destino.
Illusioni. Sogni di bimbo. Fanfaluche. Pensiamo di essere il centro del mondo, ma il mondo se ne frega di noi. Basta spostarsi due metri dal nostro misero raggio visivo che già si dipana tutta un’altra storia, tutta un’altra esperienza, tutto un altro universo che con noi non avrà mai niente a che fare. “Il mare russava in fondo alla stradicciola, adagio adagio, e a lunghi intervalli si udiva il rumore di qualche carro che passava nel buio, sobbalzando sui sassi, e andava pel mondo che è tanto grande che se uno potesse camminare e camminare sempre, giorno e notte, non arriverebbe mai, e c’era pure della gente che andava pel mondo a quell’ora, e non sapeva nulla di compare Alfio, né della Provvidenza che era in mare, né della festa dei Morti”. Magnifico, vero, questo pensiero della Mena - rivisitazione siciliana del pastore errante dell’Asia di Leopardi - mentre attende sul ballatoio il ritorno del nonno? Nessuno sa niente di nessuno. E non è così, forse? Non c’entra niente la miseria, l’ignoranza o l’opprimente fissità del ciclo biologico di quel meridione profondo e ottocentesco, non è un mero ritratto veristico di un’Italia che non c’è più, sostituita dalla modernità, dallo sviluppo e dall’incalzare di tempi tecnologici e mondializzati. Certo, quel panorama umano e geografico è scomparso per sempre, ma la radice profonda evidenziata da Verga è assolutamente identica a se stessa, così come nei cinque secoli prima o nei cinque a venire.
Nessuno sa niente, compreso chi tuitta, facebucca e divora informazione televisiva a ogni ora del giorno, soprattutto in queste ansiogene giornate di grandi sconvolgimenti terroristici e finanziari. Le cose accadono tutte sopra le nostre teste, eventi volatili e incomprensibili. Stanza dei bottoni. Spectre. Massoneria occhiuta e trilaterale. Mistero misterioso. Ma, insomma, perché siamo così impotenti? Il franco era forte e adesso invece è debole, o viceversa, e quindi questo è bene ma anche no, a seconda da che parte lo si traguardi, naturalmente, e siamo stati anni a ripeterci che il male assoluto era l’inflazione e che quella sì che rappresentava il vero incubo e i prezzi che salgono e salgono e salgono e i soldi che diventano carta straccia e gli anni Settanta e la scala mobile e la moneta cattiva che scaccia quella buona e ricordiamoci tutti quanti della Germania, dove si andava a fare la spesa con le sporte piene di banconote che non valevano più niente e alla fine è arrivato quello là con i baffetti. E però adesso cambia tutto. Lo spettro è la deflazione e i prezzi continuano a scendere e scendere e scendere (ma non era una cosa positiva, prima?) e questo ci porterà presto alla rovina e se il petrolio cala ancora qui viene giù tutto, anche se fino a un mese fa l’ira delle genti si scatenava regolarmente contro il governo ladro, che qualunque sia è solo capace di stangare benzina, alcol e sigarette.
E tutto questo è logico, è economia, ci mancherebbe altro, ci sono lì fior di cervelloni a spiegarcelo tutti i giorni in tutte le salse, ma il problema è che non ci capiamo comunque un tubo, è roba da esperti, da scienziati, da stregoni e noi, invece, per quanto si smanetti sugli smartphone e si starnazzi al bar, siamo sempre quelli lì, la Mena, comare Maruzza, Rocco Spatu e Mangiacarrubbe, patetici ologrammi di una vicenda più grande di noi, bandierine al vento buttate di qua e di là da un disegno forse oscuro e di certo silenzioso, ginestre striminzite in attesa della lava. Questa è la verità, inscalfibile, della nostra esistenza. Massima informazione, nessuna comprensione. Il resto è caos. Le preferenze, ad esempio? E il collegio uninominale? Che fine ha fatto il collegio uninominale? Per tutti i meravigliosi anni Novanta, così ricchi di sdegno civile e piazze pulite e rivolte manettare, abbiamo sbandierato il vessillo del collegio uninominale che avrebbe finalmente spedito al gabbio la nefandezza delle preferenze, simbolo di clientele e corruzione, e adesso qualcuno ci dice che guai a chi non vuole reintrodurre le preferenze e noi non sappiamo perché. E le banche popolari che diventano Spa sono un bene, un male oppure un po’ e un po’? E l’Islam è democratizzabile, permeabile o nuclearizzabile? E quello tutto forforoso che suda e grida che il sindacato vuol dare il lavoro ai giovani perché non ha mai fatto niente per dare il lavoro ai giovani? E quello che la libertà di espressione è un bene inalienabile, ma se sei negro, grasso e schifoso forse è un po’ meno inalienabile? Il turibolo oscilla di qua e di là e non si ferma mai. E noi tutti dietro, in massa, in branco, salmerie di pecoroni senza scienza e coscienza.
Bisognerebbe sapere, bisognerebbe studiare, bisognerebbe agire e intervenire con spirito prometeico sulla carne viva dell’attualità, della realtà effettuale per piegarla ai nostri voleri e trasformare la vita da mero accadimento biologico a destino unico e irripetibile. E invece no, perché il nostro destino è quello di subire. Subire e ancora subire. Tasse che spuntano, partiti che nascono, arraffano e spariscono, statisti da quattro soldi, decenni indimenticabili a seconda di quale di questi ha ospitato i tuoi vent’anni, grandi illusioni, grandi demagogie, grandi speranze presto deluse, grandi ingiustizie, grandi tradimenti, grandi dolori. Un giorno sei il re del mondo, il giorno dopo sei morto. E nel mezzo c’è sempre stato qualcuno che ha deciso per te, fino a quando non ti ritrovi spaesato come padron ‘Ntoni di fronte al mare, che “gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai faraglioni, perché il mare non ha paese neppure lui”. È un mare amaro, quello che ci tocca attraversare ogni giorno.
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