Quattro giorni di guerra, centinaia di obiettivi di Hamas colpiti da Israele, centinaia di razzi sparati da Gaza, centinaia di morti di cui metà donne e bambini… La contabilità crudele della cronaca trasforma tutto in una sequela di numeri frullata dalle opposte propagande e nel frastuono generale si perdono anche i fatti più evidenti. Nell’attuale crisi tra israeliani e palestinesi due considerazioni spiccano sulle altre. Il rapimento di Eyal, Gilad e Naftali, i tre ragazzi israeliani sequestrati nei pressi di Hebron il 12 giugno e subito uccisi, è stato un delitto a orologeria: organizzato subito
dopo una serie di segnali positivi (la visita di Papa Francesco in Terra Santa, la preghiera di Shimon Peres e Abu Mazen in Vaticano, il Governo di coalizione tra Al Fatah e Hamas) che potevano in qualche modo smuovere quello stagnante e anzi ormai farsesco teatro che viene chiamato “trattativa di pace”. Chi ha ucciso gli studenti israeliani e chi per vendetta ha bruciato vivo il palestinese Muhammad, volevo proprio ciò che è successo: una nuova guerra, altri morti, altri rancori, altri muri.
Proprio per questo, cioè per disarmare chi vuole soffiare sulle braci perennemente accese del Medio Oriente, una classe politica degna di tal nome avrebbe fatto l’opposto. Persino dalle persone più offese, i familiari dei ragazzi uccisi, erano arrivati iniziative spontanee in questo senso: i parenti di Naftali Fraenkel avevano delegittimato qualunque proposito e di vendetta e si erano messi in contatto con quelli di Muhammad. Una piccola delegazione di palestinesi di Hebron aveva raggiunto la casa dei Fraenkel a Gush Etzion per fare le condoglianze. Ma una classe politica forte e coraggiosa, capace di cogliere l’occasione, non c’è né sull’uno né sull’altro lato, e così gli estremisti assassini hanno raggiunto esattamente il proprio scopo.
L’altra considerazione che s’impone, e rafforza la precedente, è questa: tutto quanto avviene in questi giorni non ha nulla a che fare con l’assassinio dei tre studenti israeliani e del ragazzo palestinese ma è solo la meccanica ripetizione di quanto è successo, con maggiore o minore crudeltà, in media due volte l’anno dal 2000 in avanti. L’organizzazione umanitaria israeliana B’tselem ha calcolato che tra il 2000 e il 2010 gli israeliani hanno ucciso 6.040 palestinesi e i palestinesi 1.080 israeliani, senza che ciò abbia minimamente cambiato i termini del problema. Anzi, per molti versi li ha aggravati: oggi i razzi di Hamas possono raggiungere anche Haifa, Tel Aviv e Gerusalemme e Israele deve studiare sempre nuove contromisure per proteggersene e sempre più sanguinose reazioni per cercare di piegare il nemico.
Mai come oggi, per di più, intorno all’ennesima guerra israelo-palestinese c’è un Medio Oriente. La Siria è da tre anni e mezzo preda di una guerra civile che invece di esaurirsi, se non altro per autocombustione, ha esportato le sue fiamme sotto forma di Isil (Stato islamico della Siria e del Levante), le milizie fondamentaliste che sognano il califfato e intanto sono riuscite a far esplodere un Iraq mai davvero pacificato dalla cacciata di Saddam Hussein, rilanciando la caccia al cristiano. L’Iran osserva e si prepara alla guerra contro le milizie. La Libia è frammentata dalla faide tra tribù e dalle ambizioni dei clan. L’Egitto, dopo quasi quattro anni di pulsioni di piazza e convulsioni politiche, è tornato alle repressioni di massa di un regime militare. La pacifica Giordania si trova l’Isil al confine, l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo, tra loro divise, si affidano all’autocrazia dopo aver promosso e finanziato quasi tutti gli estremismi religiosi e politici. Per chiudere il cerchio, torniamo a Israele: l’unica democrazia della regione è anche protagonista della più lunga occupazione militare e comunque deve chiudersi dentro i suoi muri (con la Cisgiordania, con il Sinai, con Gaza, presto anche con la Siria) per guardare avanti.
C’è una sola lezione per tutti: svuotare il Medio Oriente dalle armi. Nell’area del mondo più ricca di risorse naturali e insieme più povera di cultura politica, tutti i tentativi di regolare le questioni con gli eserciti o con la violenza hanno solo provocato piaghe più difficili da curare.
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