Terza via e lavoro
La sfida di renzi

Lo sfondo sul quale si muove il Jobs Act è «una combinazione molto preoccupante» di bassa crescita, scarsi investimenti, alta disoccupazione e inflazione nulla.

Parola di Pier Carlo Padoan che non pronuncia il termine “deflazione” ma di fatto lo evoca, aggiungendo che le cause della crisi mondiale non sono state ancora ben comprese.

Ed è questo, con ogni probabilità, il motivo per cui Matteo Renzi non può compiere passi indietro nella sua scommessa di riformare definitivamente il mercato del lavoro in Italia. Si tratta, come ha spiegato alla Direzione del Pd, di convincere gli imprenditori che «se investi in Italia, sai quanto costa il lavoro» Di sbloccare una volta per tutte gli ostacoli che si sono opposti storicamente agli investitori stranieri e di lanciare un messaggio politico, prima che strutturale, comprensibile a tutti: fine della storia della sinistra novecentesca.

Il Rottamatore ha detto chiaramente di essere alla ricerca di quella «terza via» che è stata finora un po’ la pietra filosofale della sinistra. Quella terza via che all’estero è stata forse individuata da Bill Clinton e Tony Blair, ma che in Europa è ancora tutta da costruire. Di qui la rivendicazione di un successo elettorale che ha fatto del Pd il primo partito europeo e che, ad avviso del premier, è fondato sulla richiesta dell’elettorato di cambiare tutto.

Dunque l’art. 18 è solo una bandiera, un «tabù» da abbattere per dare corpo al rinnovamento. Il fatto stesso che da entrambe le sponde si sottolinei come riguardi in realtà solo una minoranza di lavoratori, ne conferma il valore soprattutto simbolico e politico. Una battaglia che la sinistra interna ha ingaggiato per circoscrivere i poteri del segretario-premier ma che adesso rischia di perdere, a meno di spostarla sul piano parlamentare con tutti i rischi del caso.

In realtà Renzi ha compiuto alcune timide aperture: ai sindacati innanzitutto, invitandoli al confronto su tre punti ben precisi (rappresentanza sindacale, contrattazione di secondo livello, minimo salariale), e poi alla minoranza Pd accettando la possibilità del reintegro di fronte ai licenziamenti per motivi discriminatori o disciplinari. Fermo restando che il voto della Direzione segna una direzione di marcia da cui non si torna indietro. Si tratterà di vedere se sono concessioni sufficienti. Il punto debole della dissidenza sono le divisioni, sia del mondo sindacale che di quello democratico. Del resto Bersani e Cuperlo hanno ribadito di non pensare a scissioni perché il Pd resta la casa di tutti. Però è vero che la partita è assai complessa anche per il premier.

Il motivo è semplice: la relativa esiguità della maggioranza al Senato. Qui basterebbe una decina di franchi tiratori per mandare a gambe all’aria il governo. Il che porta a ipotizzare il ricorso alla fiducia per blindare il Jobs Act. Potrebbe non essere un arma sufficiente se ci fosse un manipolo di contestatori pronti ad abbandonare il partito.

È plausibile che il capo del governo ne abbia parlato nel corso del suo colloquio al Quirinale con Giorgio Napolitano.

Infatti è evidente a tutti che, se il Jobs Act dovesse passare con i voti determinanti di Forza Italia, si tratterebbe di una giravolta politica dalle conseguenze obbligate: la crisi di governo.

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