E così, e non poteva essere altrimenti, anche Tolkien ha rotto il soffitto di cristallo ed è finalmente entrato nel Palazzo.
La mostra inaugurata alla Galleria di arte moderna di Roma sul celeberrimo autore dell’ancora più celeberrimo “Signore degli anelli”, diventato iperceleberrimo a livello planetario dopo la fortunatissima - ma anche noiosissima? - trilogia cinematografica dei primi anni Duemila, ha un po’ il significato della svolta, del cambio d’epoca, della rottura definitiva dei vecchi schemi. La cultura ufficiale ha definitivamente sdoganato lo scrittore dei “fascisti”.
La definizione è sbagliata, dozzinale e impropria, ovviamente, ma è giusto per far capire come quell’autore venisse percepito negli anni Settanta e cosa quel libro ha significato per un mondo coeso e minoritario e, quindi, perché sia diventato l’icona, il simbolo, il monolito di tutti quelli che avevano perso, di tutti quelli che erano fuori dall’arco costituzionale, di tutti quelli che erano stati cacciati, o che si erano rifugiati, nelle “fogne”. I giovani di destra.
E ovvio che il premier e tutta la sua classe dirigente, quella dura e pura, che l’ha accompagnata nella lunghissima traversata del deserto che l’ha portata dall’irrilevanza alla rappresentanza parlamentare prima e dal 3% al 30% dopo, sia orgogliosa di questo evento, che ricorda a tutti che anche loro, quelli della fogna di cui sopra, come li ha sempre definiti la intellighenzia della cultura dominante, gramsciana, segnata dall’Einaudi di Vittorini e Calvino, tanto per dirla in soldoni, pure loro avevano un Pantheon, costituito appunto da Tolkien, da Evola, da Guenon, da Spengler, da Brasillach, da Mishima, senza dimenticare Eugenio Corti sul versante del cattolicesimo tradizionalista critico delle meravigliose sorti e progressive della letteratura di sinistra, spesso grande, ma spesso pure conformista e opprimente.
Da un punto di vista psicologico è normale che Meloni e Rampelli celebrino Tolkien, quindi. Meno normale che non riflettano sulle conseguenze devastanti che quel libro, anzi no, non quel libro, ma la lettura che ne venne fatta negli anni di piombo, ha avuto sul loro microcosmo e che ben poco ha a che vedere con il valore del testo. “Il Signore degli anelli” è un romanzo grandioso e affascinante, molto divisivo - ad esempio, a chi scrive questo pezzo ha fatto venire la pellagra dopo tre pagine, ma questo naturalmente è del tutto irrilevante - benché i suoi tanti detrattori non possono non cogliere la potenza della metafora antropologica-esistenziale-religiosa dell’anello e del per nulla pervio percorso verso la sua distruzione.
Sono temi che interessano i critici letterari. Non è questa la sede. Il tema vero, da un punto di vista culturale e politico, è che la gioventù di destra ha vissuto quel romanzo come una Bibbia, un Totem favoloso grazie al quale uscire dalla cronaca, uscire dalla storia, uscire dalla realtà. Nel momento in cui si rifiutava la realtà, la realtà effettuale, il principio di realtà, che era posseduta dagli altri - i luridi borghesi democristiani, gli schifosi comunisti materialisti - e così sarebbe stato per sempre, loro si rifugiavano dentro una rappresentazione fiabesca del mondo della tradizione, un bunker magico popolato da eroi, maghi, demoni, hobbit, elfi, nani. Una teologia infantile, puerile, con dentro un po’ di tutto, paganesimo, cristianesimo, filosofia panica, new age, l’eterna lotta del Bene contro il Male, naturalmente: insomma tutto un minestrone nel quale i giovani di destra cercavano la rivincita dal loro sconfittismo nella vita vera, mentre quelli di sinistra ci vedevano il laboratorio, il brodo di coltura del neofascismo, del neonazismo, addirittura.
Perché in quanto ad evasione dalla realtà, anche i giovani di sinistra non scherzavano affatto, anche loro prigionieri della loro Macondo esistenziale, dei loro paesaggi sudamericani, della loro paccottiglia sudamericana, della loro demagogia sudamericana, dei loro miti esotici, le loro rivoluzioni straccione, i loro Mao, i loro Ho Chi Minh, i loro Che. Come sempre accade, la destra e la sinistra erano contrarie e opposte su tutto e si prendevano a botte, a sprangate e a pistolettate, ma erano concordi su un’unica cosa: sulla Colpa Assoluta dei porci borghesi. E quelle due letture distorte, sbagliate, riduttive - lo pseudo Tolkien a destra e lo pseudo Garcia Marquez a sinistra - li ha portati a sviluppare culture fuori dal mondo, fuori dalla storia, figlie dell’ideologia più vieta e ottusa. E da qui a sparare ai poliziotti o a piazzare le bombe il passo, per alcuni di loro, è stato brevissimo.
È questo il lato debole della mostra dedicata al grande scrittore britannico e cioè la mancata comprensione, passati tanti anni, guadati tanti fiumi, entrati una volta per tutte nella stanza dei bottoni, che quella loro formazione letteraria e filosofica, insomma, quella roba lì, era sbagliata. È che una classe dirigente non può basare la sua vita sull’evasione, sulla dimensione mitica, sugli slogan esistenziali, perché tutte queste cose, che ci affascinano tanto da ragazzini, quando ci balocchiamo con i nostri sogni, le nostre fanfaluche, i nostri castelli in aria, non hanno nulla a che vedere con la realtà. E quando diventi adulto e potente e devi affrontare temi tremendamente impegnativi quali le migrazioni, la recessione, la guerra, le alleanze internazionali, ma anche la riforma delle pensioni, del fisco, del mercato del lavoro, della scuola non ci sarà nessun Gandalf, nessun Aragorn, nessun Frodo a tirarti fuori dai guai. Così come nessun Aureliano Buendia e nessuna Ursula Iguaran ha tirato fuori dai guai gli ex sessantottini quando gli è capitato di governare questo povero paese sbertucciato. Perché alla fine, checché strepitino e ululino e millantino i rivoluzionari, o sedicenti tali, di destra e di sinistra, alla fine tocca sempre ai luridi borghesi - quelli che leggevano Manzoni e Leopardi - tenere in piedi la baracca.
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