Trovarsi a 50 anni
senza un lavoro

Avevano vent’anni nella “Milano da bere”, quella degli yuppies degli anni Ottanta, tra paninari e orologi da portare sopra i polsini delle camicie; trenta negli anni Novanta, dove sembrava tutto abbastanza facile e a portata di soldo; adesso ne hanno cinquanta, non hanno un lavoro, nessuna scalata sociale da fare. Nel 2013 nel Comasco i disoccupati tra i 45 e i 54 anni erano quattromila, 2890 nel 2012, 1400 tra i 55 e i 64 anni rispetto ai 1020 dell’anno prima.

È evidente che ci sia stata un’impennata di senza lavoro nella fascia tra i 45 e i 54 anni, meno per i più anziani che
forse si è riusciti a pre-pensionare per alleggerire i bilanci delle aziende in crisi. I cinquantenni o quasi sono invece spesso rimasti con il cerino in mano come tanti giovani. Alcuni di loro, sui blog che sono nati proprio per mettere in comune stati d’animo, speranze e delusioni si definiscono “dead man, neanche walking”, cioè uomini morti che nemmeno camminano. La frase è quella, adattata, che nel film “Il miglio verde” veniva pronunciata quando si avvisava dell’arrivo nella camera della morte di un condannato all’iniezione letale.

Un uomo morto in cammino, cioè un vivo senza speranza. Non è così, i cinquantenni non sono persone senza futuro, ma persone in difficoltà. Una difficoltà seria che può deprimere più in fretta di quanto possa succedere a un giovane che perde il lavoro. Il ministro del lavoro Giuliano Poletti ha detto che sta pensando a contratti di reinserimento lavorativo per i cinquantenni, probabilmente perché sa che quell’età è delicata e che la loro esperienza è preziosa.

Per le donne i 50 anni è il prendere coscienza che la femminilità cambia, che spesso non è più fatta di maternità; per gli uomini che la propria forza lavorativa che inietta autostima (e che prima della crisi veniva premiata e pagata) è più un impedimento che una risorsa. Se si perde il lavoro, la propria identità subisce uno scossone importante.

I figli degli anni Sessanta, i cinquantenni, sono cresciuti convinti che l’impegno, il sudore, la responsabilità portava per forza al risultato: lavoro, famiglia, soldi. Adesso le stesse persone sono costrette ad ammettere che non è più così. Molti cinquantenni passano in questi anni dall’essere sostegno a farsi sostenere, alcuni devono accettare l’aiuto dei genitori ottantenni, altri dei figli. E non è facile.

Ecco perché è fondamentale che le parole di Poletti si trasformino al più presto in fatti e che i vantaggi promessi per chi assume cinquantenni siano subito veri, i comaschi vogliono posti veri, possibilmente per tutti. E poi c’è bisogno di formazione, fondamentale perché chi ha 50 anni è meno veloce con le nuove tecnologie di chi ne ha 30, ma soprattutto ha l’idea del posto fisso e deve essere formato alla flessibilità e alla precarietà. In tutta questa negatività però i cinquantenni (che si sentono dire “troppo giovani per la pensione, troppo vecchi per un nuovo lavoro”) stanno imparando a riempire il loro tempo.

Ci sono persone che accettano lavori di poche ore, pur di uscire di casa, che fanno concorsi misurandosi con i ventenni. «Non bisogna lasciarli soli» dicono gli psicologi e loro non devono starsene soli perché l’ozio è buono quando è scelto, ma il ministro faccia in fretta.n 

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