Un bluff la legge
sui soldi ai partiti

Il 16 ottobre la Camera ha approvato un disegno di legge dall’enfatico titolo “Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore”. La riforma non è legge, perché deve ancora passare, con tutte le incertezze del caso, all’esame del Senato. Eppure già le dichiarazioni ufficiali del sistema partitico celebrano l’epocale riforma. Si assiste insomma all’ennesima riedizione di un effetto- annuncio, per cui si proclama già raggiunto
il risultato prima ancora che la riforma abbia concluso il suo iter; si tace che, quand’anche la riforma andasse in porto, l’entrata a regime è prevista non prima del 2017. Sul punto specifico, peraltro, i cittadini dovrebbero ormai essere disincantati, avendo già sin troppe volte assistito a operazioni di facciata attorno al tema sensibile del finanziamento pubblico dei partiti. La stessa riforma che si introduce con gran clamore è stata, in alcuni suoi meccanismi, già sperimentata a fine anni novanta e abrogata perché non funzionante. Anche in questa vicenda, insomma, si paga dazio pesante all’assenza di una sfera pubblica indipendente, capace di alimentare un dibattito e un’informazione liberi e profondi.

Peraltro, nel merito, l’annunciata fine del finanziamento pubblico ai partiti si rivela come una mera modificazione del criterio di contribuzione da parte dello Stato. Manca un riordino davvero trasparente della giungla dei contributi, tra cui quelli versati ai gruppi parlamentari che hanno costituito spesso una ulteriore e non irrilevante fonte di finanziamento per i partiti.

Al di là della retorica e degli annunci, il sistema dei partiti non ha il coraggio di affermare la necessità, non solo d’ordine pratico, ma di squisito rilievo democratico, del finanziamento pubblico dei partiti. In Europa si utilizzano per lo più forme miste di finanziamento (pubblico e privato). Nelle democrazie occidentali, i partiti continuano a svolgere una fondamentale e ancora insostituibile funzione di rilievo pubblico. Il finanziamento pubblico, ricondotto a limiti ragionevoli, resta l’unica garanzia affidabile per impedire che tale delicata funzione cada nelle mani di poteri economici privati. Il tetto previsto per le erogazioni liberali, pur necessario, appare una garanzia troppo fragile. Il pericolo più grave appare la liquefazione dei partiti, ridotti a strumenti al servizio di leadership personali e sprovvisti di una visione progettuale dell’azione politica.

Insomma, il pericolo è che la riforma vada nella direzione della disintermediazione dello spazio tra individui e potere, anziché procedere a un diretto riordino legislativo che affronti di petto il tema del radicamento e della strutturazione democratica dei partiti. Su questo punto, il disegno di legge introduce -è vero- alcuni criteri di democraticità, riconducibili però più a istanze di trasparenza che a contenuti effettivi e vincolanti di partecipazione. Viene imposta l’adozione e la pubblicazione di uno Statuto che abbia contenuti minimi, tra cui i criteri di selezione delle candidature. Requisito che ancora non dice della necessità che il partito decida e selezioni effettivamente secondo criteri di coinvolgimento democratico (almeno) degli iscritti.

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