Sì, vero, gli ultimi dati Istat raccontano di un Paese in cui il tasso di disoccupazione, al 31,5% nella fascia 15-24 anni, è in calo dell’1,2% su scala mensile e del 6% su scala annua. E la stessa dinamica si avverte in provincia di Como dove i disoccupati under 30 sono il 15,03%, il valore più basso dal 2013. Ma c’è poco da esultare anche a voler enfatizzare questi piccoli passi avanti. Il nostro, soprattutto se si alza lo sguardo e si prende in considerazione ciò che avviene all’estero, non è un Paese amico dei giovani. Il dato italiano sulla disoccupazione migliora ma è pur sempre due volte quello europeo e nello stesso tempo sta crescendo la fetta dei cosiddetti “neet”, i giovani che non studiano, né hanno un posto di lavoro.
In Italia ci sono poche risorse per l’innovazione (la raccolta del venture capital è ai minimi termini rispetto agli Stati europei, dietro anche a Belgio e Spagna) ed il nostro è un sistema formativo per certi versi schizofrenico in cui i ragazzi di terza media continuano, non si bene perché, a considerare la formazione tecnica come un ripiego e quelli che si iscrivono all’università si ostinano a privilegiare le facoltà umanistiche al termine delle quali è sicura la condanna a una lunga attesa per l’ingresso nel mondo del lavoro. Un Paese, ancora il nostro, dove la regola, per i talenti più qualificati, è diventata quella di fare le valigie e andarsene all’estero in virtù di occasioni di lavoro più gratificanti, a cominciare dal fattore stipendio.
Bastano questi pochi flash per comprendere quanto sia centrale il tema della questione generazionale per il rilancio del Paese ed è per questo che il nostro giornale ha organizzato un forum con l’economista Luciano Canova chiamando a confronto le associazioni, gli imprenditori e i professionisti. Ne sono sortiti una fotografia impietosa del presente ma anche elementi di fiducia rispetto al possibile riscatto. Come non considerare un driver straordinario la propensione dei millennials italiani a considerare, oggi più che nel passato, il mondo come il naturale habitat del lavoro? I giovani di oggi sono più istruiti, più internazionali, padroneggiano meglio (o almeno conoscono) gli strumenti tecnologici, sanno adattarsi con più facilità all’evoluzione digitale dell’economia. Un po’ come, quattro secoli indietro, Galileo, la cui vicenda è stata declinata al presente in un bel libro di Canova. Una figura lontana eppure modernissima: cervello in fuga nella Repubblica di Venezia, startupper ante litteram grazie ai brevetti e social media manager bravissimo nel far parlare di sé e delle sue imprese sollecitando, anche attraverso la polemica, il dibattito della comunità scientifica.
Certo, all’estero si cresce, decisivo per il sistema Italia è però anche il fattore ritorno. Ogni cervello perduto è un talento regalato agli altri Paesi ed è anche un capitale monetario bruciato (un valore che è stato anche stimato ed è ritorno ai 170mila euro per ogni laureato). Il tema è decisivo anche se i programmi delle forze politiche, di tutte quelle in campo, lo ha affrontato marginalmente perlomeno in campagna elettorale, dove i due grandi temi sono stati il taglio delle imposte, in generale, e la questione sicurezza legata all’immigrazione. Il Sole24Ore ha avuto la pazienza di fare un check approfondito dei programmi elettorali e vi ha trovato pochi riferimenti in generale ai giovani, pochissimi trasversali come la promessa di un massiccio turn-over generazionale nella pubblica amministrazione e l’impegno a un quadro normativo più chiaro e definito per mettere fine alla giungla della gig economy. Giusto, giustissimo, ma non basta. Cominciamo ad aprire il dibattito con le otto pagine speciali nel giornale di domani.
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