Un gettone di assenza
per gli ospiti in tivù

Alla fine degli anni Ottanta quel genio assoluto di Altan cristallizzò in una vignetta memorabile l’esplosione del fenomeno televisivo dell’insulto e dell’aggressione verbale e fisica durante i talk show. C’è il solito omino, tipico del suo tratto, che si guarda allo specchio: “Sono famoso. La gente mi ferma per strada e mi dice: A coso, facce ‘na polemica!”. Applausi.

Con un semplice disegno il grande vignettista era riuscito a spiegare meglio di mille analisi di costume e di mille trattati semiotici quello che era successo in quegli anni decisivi per la costituzione dell’Italia futura, che è poi quella di oggi: la fine delle ideologie, il boom economico, l’inesorabile declino non solo politico ma soprattutto visivo, plastico, comunicativo dei due architravi della società italiana, la Dc e il Pci, lo sgretolamento lento ma inesorabile di tutti i canovacci, le pietre d’angolo, le consuetudini che avevano ordinato la nostra vita per mezzo secolo, le televisioni commerciali, il narcisismo, il presenzialismo, l’ebbrezza dell’immagine a scapito dei contenuti. Tutto questo, in un’era pre-social, aveva di fatto soppiantato il ruolo dei giornali per inondare l’agorà mediatica di una comunicazione immediata, maieutica, plasmatrice, decalcomanica a uso e consumo della sterminata platea dei consumatori ed elettori, cavallo di Troia che di lì a poco Berlusconi avrebbe utilizzato con astuzia magistrale.

Il simbolo di quella rivoluzione, di quel cambio di paradigma fu senz’altro lo “sgarbismo”, cioè quell’arte dell’insulto che venne partorita durante alcune puntate storiche del “Maurizio Costanzo Show” e che travolse gli schemi tradizionali della comunicazione televisiva. Inveire contro un ospite, infamarlo, ululare, gesticolare e tutto il resto, utilizzando toni ed epiteti impensabili fino a pochi anni prima, è stato un elemento di rottura dalle conseguenze profondissime. Da lì in poi la china è stata percorsa con velocità crescente e pervasiva ed è andata ad occupare, ai limiti del monopolio, la programmazione televisiva pubblica e privata e ad invadere campi che si erano sempre ritenuti sacri, quali la cultura e la politica, che invece sono diventati bivacchi per i manipoli degli esegeti, dei santoni e dei sacerdoti del politicamente scorretto. E questa non è una riflessione moralistica sullo stile “che tempi, signora mia, che una volta sì che si vedevano dei bei programmi”, ma una semplice constatazione di quanto i capetti del Palazzo siano ormai immersi mani e piedi in questo orizzonte mentale che li spinge a diffamare e a straparlare di cose che non conoscono e del tutto irrealizzabili.

Ma il punto vero è un altro ed è tornato d’attualità dopo aver visto il video così virale che più virale non si può della lite partita a offese, proseguita a minacce e finita a sediate tra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini durante una trasmissione su Retequattro. Niente di nuovo, a dir la verità, visto che i due frequentano da decenni le più variegate e spesso imbarazzanti arene televisive, dove dispensano polemiche ed egocentrismi, pur essendo entrambi soggetti di grande intelligenza e di notevole profilo culturale. Ma questo ormai non conta più niente, a parte il fatto che sbirciare due anziani intellettuali che si accapigliano in diretta tv lascia una sensazione felliniana di tristezza infinita.

La violenza dello scontro ha ispirato a un grande analista di costume come Michele Serra una riflessione su “Repubblica” oggettivamente strepitosa, che vale la pena di approfondire. Il tema delle risse catodiche, come detto, non è nuovo, i suoi attori sono facilmente identificabili, è noto che la maggior parte di queste vengano costruite ad arte da molti autori e conduttori, che larga parte degli insultanti e degli insultati recitino un copione preordinato e che tutto venga pianificato per dare una scossa agli ascolti, solleticare il voyeurismo degli spettatori di bocca buona e far rilanciare ogni episodio dalle stesse televisioni, dai giornali, che dovrebbero fare un altro mestiere e che invece sono ormai attaccati al carro del generone, e dai social per poi tornare sulle televisioni e sui giornali e sui social e via andare così. Questa è la fogna mediatica, signori, questi i suoi criteri, questi i suoi codici. A chi piace questa sbobba se la trangugi pure, per il resto, tutto sommato, chissenefrega.

Ma il vero tema è che, ogni tanto e per motivi misteriosi, dentro questo Barnum finiscono pure delle persone in gamba, professionisti preparati, individui che hanno davvero delle cose importanti da dire, competenze vere, profondissime, sopraffine e quando ti capita di scorgerli in quei consessi, in quelle chiaviche, in quelle suburre, attorniati da Tina Cipollari, Gianluca Vacchi e l’Uomo Salsiccia, si va subito in ansia, si temono le peggio imboscate, ci si domanda perché mai si siano fatti fregare, li si vorrebbe aiutare, portarli via, impedirgli di farsi coinvolgere nell’incontro di lotta nel fango, perché non è giusto, perché non se lo meritano. Molto spesso la motivazione è economica. La partecipazione a certe trasmissioni viene pagata e questa da che mondo è mondo è una leva che ha un senso e che non può essere giudicata con spocchioso moralismo.

Ma se è così, ed è così, allora esiste un’unica soluzione. Visto che in questa società di scappati di casa, di poveracci e di analfabeti funzionali le competenze vanno protette come i Panda giganti, bisogna trovare assolutamente una fondazione filantropica che prenda a cuore questa missione ed impedisca l’esposizione al pubblico ludibrio di persone di valore in talk show da osteria per permettergli di impiegare meglio il loro tempo e il loro ingegno. Bisogna istituire un gettone di assenza, che si contrapponga al gettone di presenza: “Se NON vai in quel talk show, ti pago”. Sembra una pazzia, ma non lo è. Una colletta per impedire a un uomo capace di coprirsi di ridicolo è la più nobile delle crociate. Chi mette i primi venti euro?

@DiegoMinonzio

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