In una pagina magnifica di “Morte a credito”, Louis-Ferdinand Céline – scrittore gigantesco, disturbante, demoniaco, senza il quale non si può capire nulla della natura tragica del Novecento – prende una pausa dalla sua prosa torrenziale, iraconda e carnalissima per raccontarci lo smarrimento del protagonista del romanzo di fronte all’incessante e incomprensibile fluire delle persone nella sua vita: «Forse non l’avrei rivisto mai più… se n’era andato tutt’intero… era entrato anima e corpo nelle storie che si raccontano… Ah, terribile però… hai voglia d’esser giovane quando t’accorgi per la prima volta… come la gente si perda per via… compagni che non rivedremo più… mai più… che son scomparsi come tanti sogni… che tutto è finito… svanito… che anche noi ci perderemo così… un giorno ancor molto lontano… ma ineluttabile… nello spietato torrente delle cose, delle persone… dei giorni… delle forme che passano… che non si fermano mai…».
A parte gli immancabili puntini di sospensione, inconfondibile marchio stilistico, Céline qui sembra prendere una pausa dalla cupezza, dal nichilismo e dalle iperboli dell’argot che dilaga nelle sue pagine più celebri ed è invece così malinconico, così romantico, immerso e sperduto nell’eterno fluire delle cose. E, soprattutto, così attuale. Perché così è, ne cambia stile, la condizione umana. È un sentimento tipico della fine delle vacanze, quello qui ricostruito da uno dei più grandi scrittori del secolo scorso. Perché, specialmente negli anni verdi, ma tutto sommato anche dopo, è l’estate il momento in cui l’incrocio causale ed effimero della nostra esistenza con quella degli altri, di tanti altri, registra il suo massimo affollamento. La ragazza con i dentoni, la famigliola di Novara, il gruppo di amici napoletani, gli animatori, tutti insopportabilmente simpaticissimi, che arrivano uno di qua, uno di là, l’altro di su e l’altro ancora di giù e i vicini di stanza e quelli di ombrellone e quelli con i quali dividi o contendi il parcheggio e il proprietario filosofo della masseria che ti spiega tutte cose e la vecchina che ti vende il formaggio che non ce n’è o i fichi che solo lei e quelli che inesorabilmente incroci quando porti la piccola alla baby dance e che inesorabilmente ti incastrano per una cosa da fare assieme che inesorabilmente rovinerà i tuoi programmi. E poi ci sono quelli cortesi e quelli anche no e gli altri, i mille altri, tutti gli altri, e tutti questi si intersecano e si moltiplicano e si sovrappongono per poi, alla fine, svanire uno dopo l’altro, all’improvviso, come spettri al canto del gallo. Perché? C’è qualcosa che non funziona.
È una sensazione un po’ angosciante, perché anche se in fin dei conti di queste persone non importa nulla a te di loro così come a loro di te, la certezza che siano presenze che non rivedrai mai più – quanto durava da ragazzo il bigliettino spiegazzato con l’indirizzo della biondina tedesca? una settimana? due? il sogno di un magico ultimo dell’anno a Monaco che poi non si faceva mai e se si faceva si rivelava una delusione cocente? – ti fa domandare se si nasconda un senso dietro a tutto questo circo, a questo carrozzone, a queste eterne porte girevoli dalle quali entriamo e usciamo senza posa e, soprattutto, senza mai lasciare un segno duraturo.
Ma in fondo, non è così anche nella vita di tutti i giorni, abbandonate le mete estive e le loro frequentazioni occasionali? Non è lo stesso anche se vivi e lavori da sempre nella stessa città e nello stesso ufficio? Basta fermarsi un attimo. Tutti noi che passiamo sotto i portici, il grande caravanserraglio della commedia umana: quello con gli occhiali sul naso, quella con il tacco dodici, quello che porta a spasso il cane, con l’ombrello, sovrappeso, sottopeso, con la cresta, con il riporto, la professoressa “deportata” dallo stivale, il manager macchietta, il direttore fallito, il sindacalista pulcioso, lo stilista, lo sciupafemmine da balera, la sciampista che lei vorrebbe vivere a Barcellona, il reduce del Sessantotto, il reduce del Settantasette, il reduce dell’Ottantanove, il reduce del Novantaquattro, il benaltrista, il cheguevarista, il doppiomoralista e tutti lì che passano e sai già che per quanto possano esser insignificanti non li rivedrai mai più, anche perché se dovessi rivederli due giorni dopo te li saresti già dimenticati, e così loro di te, eccoli lì, che passano, vivono in un sogno insieme con gli altri, tutti assieme, e tutti quanti si avviano verso la fine. Che tristezza, che cosa infame, il silenzio degli innocenti, dei fantasmi, che sfilano lungo le vetrine…
E se ci pensi ancora meglio, lo stesso vale anche per moltissime persone – quasi tutte? - che avevi tanto frequentato e amato e stimato e idolatrato e che pensavi fossero parte integrante di te e per le quali avresti fatto qualsiasi cosa, e loro a te, e poi alla fine, se ti guardi indietro, quante ne hai perse, quante non hanno più niente da dirti né tu a loro? Se c’è una poetica del ricordo, beh, c’è n’è anche una della dimenticanza. E il tuo grande amore dei vent’anni? E l’amico che più amico non si poteva? E le solenni promesse che noi non ci tradiremo mai, non ci deluderemo mai? Che fine hanno fatto tutte queste parole definitive, questi riti apotropaici, questi esseri speciali imprescindibili? Ossi di seppia. Scampoli di memoria. Ombre nella notte.
Tutto passa, tutto scorre, tutto si dimentica. Nasci solo, vivi solo, muori solo. Ed è forse questo che ha dettato una riflessione così disperata a Céline: «Mi veniva una voglia selvaggia… un panico da farmi tremare… di saltargli finalmente addosso… di mettermi davanti a loro… perché si fermassero di botto… D’agguantarli per il lembo della giacca… perché se ne stessero lì… non si muovessero più! Mettessero lì le radici!... una buona volta per tutte!... E non li vedessimo più andarsene via così.» Rientrare a casa e cercare di dare una risposta a questo grido è forse il più eroico dei buoni propositi.
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