A febbraio di cinquant’anni fa il Sessantotto italiano esplose nelle università, ma oggi forse il suo senso più profondo va cercato in ciò che accadde un piano più giù, nella scuola. C’era meno ideologia, almeno da parte degli studenti ancora “troppo piccoli”, e un’esigenza di giustizia sociale più umanamente radicata, espressa in modo magistrale nella “Lettera a una professoressa” di don Lorenzo Milani, e dei suoi ragazzi di Barbiana, fin dal formidabile incipit: «Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato tanto a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate...». A Barbiana, non a caso, si è recato in pellegrinaggio sulla tomba di don Milani papa Francesco, lo scorso anno.
“Lettera a una professoressa”, assieme a “Sulla strada” di Kerouac e “Cent’anni di solitudine” di Garcia Marquez, è tra i libri da salvare, secondo il nostro critico Fulvio Panzeri, fra quelli che ispirarono la generazione sessantottina. Il perché lo leggerete domani in un numero speciale de “L’Ordine” dedicato proprio al cinquantesimo di un anno che è diventato un simbolo, e che, come tutti i simboli, soprattutto quando c’è di mezzo la politica, e soprattutto in Italia, non smette di dividere. Noi vi proporremo una rilettura sia “da destra” che “da sinistra”, ma per voce di due giornalisti scrittori che non si sono fatti ingabbiare dalle ideologie e hanno messo la cultura e l’uomo al primo posto nella loro vita e nella loro professione, ovvero Massimo Fini ed Enrico Deaglio.
«Non credo che ci sarà una memoria condivisa. E forse non è un male assoluto. Spesso le memorie condivise sono molto ipocrite», dice Deaglio. Però ha scritto un libro di 630 pagine, “Patria 1967-1977” perché quella memoria, condivisa o no, non si cancelli. E, in particolare, non si cancellino i “diritti squisiti”, per citare l’involontario calambour di una pensionata che, nonostante il Sessantotto, non ha avuto l’opportunità di frequentare le “scuole grosse”.
L’utopia è fallita, come alcuni grandi registi (Bertolucci e Pasolini, Antonioni e Petri) avevano intuito prima del ’68 e hanno “certificato” dopo - la filmografia essenziale la troverete sempre su “L’Ordine” in un articolo di Fabrizio Fogliato. Però ci resta tanta buona musica, anche se in Italia, come ci ricorda nel suo intervento il super esperto Ezio Guaitamacchi, il rock e i cantautori sono diventati popolari con un po’ di ritardo, all’inizio del decennio successivo, quando Fabrizio De André, di cui anche Salvini nei giorni scorsi ha tessuto le lodi attirandosi infinite critiche sulla sua “coerenza”, scrisse tra gli altri un brano dedicato proprio al Sessantotto, “La canzone del Maggio” (1973). Resta anche qualcosa d’altro di “condiviso” e trasversale: i jeans, per esempio. Paolo Aquilini, che ha curato una mostra sul tema, ci ricorda come prima del ’68 fossero stati i pantaloni dei minatori e dei cercatori d’oro e, nel contempo, sfata un miro esageratamente americano, perché il fustagno tinto di blu arriva dalla Genova del Cinquecento e la parola jeans è la distorsione inglese del nome della città ligure. Anche quando ci si veste, meglio sapere la storia che c’è dietro a quello che indossiamo, per essere più consapevoli e non esporsi a figuracce.
Dall’archivio del vecchio “Ordine” ci proponiamo un pezzo in presa diretta sugli sconti, ideali, ideologici e, a volte, fisici, che infuriavano nelle università di allora (abbiamo scelto di pubblicare questa domenica il numero speciale proprio per legarci alla data simbolica dell’occupazione più esplosiva, quella della facoltà di Architettura di Roma, che il primo marzo si trasformò nella “battaglia di Valle Giulia”). Comunque anche dall’università emerge un dato - 425mila iscritti allora, oltre e una milione e seicentomila oggi - che meriterebbe ulteriori riflessioni e approfondimenti.
Ma ritorniamo nella scuola, laddove si impara a leggere e scrivere, perché quello che differenzia l’uomo dalle altre specie è la parola. Non a caso il ’68 fu anticipato, negli Stati Uniti come in Italia, da movimenti intellettuali fondati sul rinnovamento del linguaggio e su un confronto a viso aperto, aldilà delle rigidità sociali e culturali del passato: oltreoceano il Free Speech Movement, nato nell’Università di Berkeley nel ’64, da noi il Gruppo 63, formato da poeti e scrittori di diversa estrazione, da Umberto Eco a Nanni Balestrini, da Giorgio Manganelli a Edoardo Sanguineti. Dalla parola, dal Gruppo 63 e dalla poesia prende avvio il nostro numero speciale, con un copertina firmata da un critico, poeta e scrittore tra i maggiori del secondo Novecento, Maurizio Cucchi. Passate le mode, le ideologie e le avanguardie, anche lui trova più verità in un libro ambientato nella scuola, “Equilibrio in pezzi” di Giancarlo Majorino, allora docente al liceo Einstein di Milano, uscito nel ’71. Questa la poesia che Majorino dedica alla “Visini”, una studentessa altoborghese. «Misurata, carina, scesa - è chiaro - / da un’educazione paleopatrizia. / Prima della classe, non sa / cosa significhi lotta di classe. / Ma lo imparerà! urla la Lòvere; / invece forse no. Comunque / ringrazia, uscendo, / chi glielo spiegherà. / Adora i concerti ed è priva, / per ora (pensa?), di carnalità. / Le sue calzette bianche / inebriano le affaticate, stanche / proff. a mezzo servizio. / La comunista invece le dà quattro: / ringrazia anche la comunista, sa / che lo scrutinio la favorità; / lo scrutinio di classe generale / non può farle del male». La persona e il merito, sembra ricordare Majorino alle colleghe “arrese” che favoriscono la figlia dei ricchi così come alla comunista che la penalizza, sono i due concetti su cui trovare “condivisioni” e “larghe intese”, per costruire una società migliore. Nel ’68 come oggi.
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