In una scena nel suo piccolo memorabile di “Caterina va in città”, un frustratissimo insegnante di ragioneria vede i papà delle due compagne di classe che hanno messo a soqquadro la vita della propria figlia - l’ex fascista diventato parlamentare berlusconiano e il raffinato intellettuale di sinistra - scambiarsi inchini, facezie e salamelecchi all’uscita da scuola.
È in quel momento che capisce tutto: non esiste quella distinzione tra destra e sinistra, tra ricchi e poveri, tra colti e analfabeti, tra statisti e arruffapopoli di cui ci si riempie la bocca tutti i giorni e che ci viene rifilata come verbo inoppugnabile dagli insopportabili e bugiardissimi talk show politici di ogni ordine e grado. Sono tutte balle, escogitate ad arte per manipolare noi gonzi con l’anello al naso, soprattutto quando si sente nell’aria odore di elezioni. La verità è un’altra: in questa repubblica dei tartufi l’unica distinzione che esiste è quella tra chi sa stare al mondo e chi non sarà mai nessuno.
Il film, girato una decina di anni fa da Paolo Virzì, non è un capolavoro, naturalmente, ma in quella scena madre strepitosamente interpretata da Sergio Castellitto e che finisce tra maledizioni, crisi di pianto e piatti rotti si coglie una piccola saggezza profondissima. Le dinamiche della politica politicata in questo paese non hanno niente a che vedere con le distinzioni storiche e culturali che dovrebbero invece costituirne il fondamento e, soprattutto, non hanno alcun elemento di contatto con la vita vera della stragrande maggioranza degli italiani. Non che sia questa gran rivelazione, d’accordo, in fondo è solo una variante della tematica già tante volte approfondita sulla genesi e il prosperare della Casta, ma, insomma, ci offre un’ulteriore chiave di lettura che permette di attendere il fatidico giorno del giudizio, quel 9 settembre che ormai da settimane i media ci stanno ammannendo come il punto di non ritorno della vicenda politica, sociale e addirittura antropologica della storia patria, con un minimo di ironia e disincanto.
E questo perché domani, quando la giunta delle elezioni del Senato dovrà decidere la decadenza di Berlusconi, si risolverà tutto in una grandissima buffonata. Domani non succederà niente. Assolutamente niente. Niente di niente. Si accettano scommesse. E, attenzione, a prescindere da quello che potrà accadere in superficie. Tutto può essere: un rinvio, una richiesta di approfondimento, una gran sceneggiata napoletana degna di Mario Merola, un simposio di cervelloni sulla legge Severino, una sua riscrittura, uno stralcio di questo e pure di quello, le dimissioni dei ministri del Pdl, un Aventino bis, un videomessaggio tutto fuoco e fiamme dall’empireo di Arcore, il governo che cade per farne uno fotocopia subito dopo rappattumando transfughi, quaquaraquà e donne cannone oppure un altro tutto diverso con grillini, neocomunisti e chissà quali altri diseredati o anche la corsa alle urne a novembre oppure a febbraio o a maggio o forse nel 2015 e, già che ci siamo, l’invasione della Polonia, degli Hyksos e degli ultracorpi e tutto quello che vi passa per la mente e molto altro ancora. D’altra parte, non è questa la culla dell’avanspettacolo, del Gattopardo e di Pulcinella?
Siamo arrivati al punto. Qualunque di questi scenari si realizzi, non cambierà di un millimetro il canovaccio sul quale si avvita da vent’anni - e forse da venti secoli - la nostra piccola e misera e poltigliosa storia politica: una reiterata, atavica incapacità di scegliere, di decidere, di girare l’inerzia del piano inclinato sul quale ci siamo sdraiati per pigrizia e dabbenaggine. Niente tagli, niente riforme crudeli, sanguinose e meritocratiche, niente investimenti e strategie, ma solo spesa e tasse e mano pubblica e municipalizzate e ministeriali a ufo e sottogoverno e rendite di posizione e fervorini sindacaloidi e accise e addizionali e benzina e sigarette e francobolli e tasse mascherate che spariscono, rimbalzano e ritornano e questo sia che governi la destra che la sinistra che il centro e pure il movimentismo più movimentista che c’è, che infatti quando è all’opposizione tuona contro gli inceneritori e poi se gli capita (e quando gli ricapita?) di andare al potere si accorge che gli inceneritori glieli fanno sotto al naso lo stesso. Una mostruosa e solidissima e inscalfibile linea continuista che innerva da sempre il carattere italiano, così mellifluo e pittoresco da trovare non a caso nell’otto settembre - data odierna - la più plastica delle rappresentazioni.
E’ la solita Italia. Quella che galleggia nel vuoto di un panorama politico di rara mediocrità. Una destra immolata dietro le bizze di un unico motore immobile attorno al quale ruota una corte satrapesca che non ha né competenze né conoscenze, ma perfetta coscienza invece che, senza di Lui, sparirebbe dalla mappa del potere nel giro di un nanosecondo. Una sinistra addirittura ammirevole, se non fosse spassosa, nella precisione chirurgica dei suoi accoltellamenti familiari e che cincischia e sgambetta e filosofeggia e avvelena scientificamente tutti i pozzi dove dovrebbe abbeverarsi e che alla fine si ritrova sempre trascinata per le orecchie davanti al presidente della Repubblica al quale, sant’uomo, toccherà pure stavolta dirle cosa deve fare. Un centro paludoso e fariseo che nel giro di un anno ha trasformato il gelido e spietato tecnocrate trilaterale Monti, nel quale in tanti avevano riposto le più profonde speranze di aggancio a una politica responsabile ed europeista, in un personaggio da Bagaglino, che a raccontare in giro le vicende degli esodati e della riforma del lavoro, degne del miglior Cirino Pomicino, c’è da tenersi la pancia dalle risate.
Ed è così. E continuerà ad essere inesorabilmente così, alla faccia nostra e di tutti quelli che avrebbero qualcosa da dire e che hanno un sacco di cose da fare.
E lo sapete perché? Perché è vietato fare le persone serie, in questo paese di buffoni.
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