La perdurante crisi economica che ha colpito l’Occidente industrializzato impone una riflessione che non può essere appannaggio dei soli economisti i quali, dopo le sciagurate profezie degli ultimi anni, dovrebbero avere, una volta tanto, il buon senso di ascoltare il cittadino.
Illustri soloni dal nome roboante ci hanno raccontato per anni la favola liberista del “turbocapitalismo” e le mirabilie della globalizzazione che avrebbero regalato felicità a tutti i popoli del pianeta. Per decenni, il dogma del libero mercato ha rappresentato l’unico indice idoneo a misurare il grado di democrazia e di libertà di un paese. Agli apologeti della globalizzazione, in realtà, non interessa rendere più libero il cittadino affrancandolo dal bisogno. Essi, infatti, seguitano a coltivare il mito di un mercato globale in grado di dispiegare un potenziale terrificante di profitto: in quest’ottica, anche la guerra è funzionale all’obiettivo primario di espandere il mercato usando il nobile pretesto di espandere la democrazia. Svanisce per sempre la grande utopia della fratellanza tra genti, etnie e religioni e si impone la logica universale del mercato che omologa costumi e consumi. Occorre ammettere che l’attuale crisi tocca in profondità l’intero sistema di valori del mondo occidentale che da secoli ha posto il profitto al centro del proprio universo culturale. Dalla mistica del denaro nasce, infatti, il primato dell’economia sulla politica: mai come in questo momento storico, la politica soggiace rassegnata alle leggi dell’economia che impongono ai governi una logica aridamente contabilistica, sprezzante dell’etica e dei gravi problemi che affliggono il cittadino. In proposito, risulta sintomatica (e inquietante) l’opinione dell’economista Gary Becker secondo il quale ogni Stato dovrebbe introdurre la pena di morte perché costituisce un deterrente sociale più economico del sistema penitenziario.
Anche da certe tesi è facile arguire che “questo” capitalismo utilizza i sistemi democratici al solo fine di imporre il feticcio del mercato e di trasformare il cittadino in vorace, e ignaro, consumatore (come dice Bauman, “homo consumens”). Non è questo il capitalismo che merita il sostegno degli Stati. Serve, pertanto, una vera rivoluzione culturale in grado di restituire al capitale la dignità perduta. In questo senso, sarebbe opportuno garantire la giusta tutela al capitale impiegato negli investimenti e nel processo produttivo; di contro, dovrebbe essere colpito, anche duramente, quel capitale che si trasforma in rendita parassitaria e strumento di rapaci speculazioni finanziarie.
Il capitalismo finanziario, sorta di capitalismo degenere che continua a seminare povertà, si fonda sull’assunto che il denaro è in grado di produrre denaro in modo più agevole ed incontrollato del lavoro. La crisi attuale dimostra, tuttavia, che il capitalismo finanziario è strutturalmente instabile, irrazionale ed imprevedibile, ed è volatile quanto la moneta che maneggia al solo fine di riprodurla. Per questo motivo, non andrebbe mai dimenticato ciò che disse Isaac Newton dopo aver perso 20.000 dollari in borsa: “Posso calcolare il movimento dei corpi celesti ma non la follia degli uomini”.
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