Vado al Massimo (D’Alema), vado al Silvio (Berlusconi). Vasco Rossi se ne faccia una ragione, è questa l’hit della politica di oggi e forse, più che mai, addirittura di domani. Un gioco che somiglia al Monopoli dove ogni tanto ti tocca ritornare al via, anche perché il mare in cui ti sei avventurato appare più putrido e procelloso di quello pur zozzo e agitato da cui sei partito. E a proposito di partenze, anzi di ripartenze. Sui blocchi della corsa al Quirinale ormai ventura si sono collocati proprio i due di cui sopra. E attenti a loro. Perché la salita al Colle per un politico è come il Pamir (il tetto del mondo) per un alpinista. La massima impresa di una carriera. Sarà per quello, che almeno per quanto attiene al declivio romano, è spesso stato un gioco a mutilarsi dei santissimi per far dispetto alla moglie e spedire alla massima carica dello Stato a figure inaspettate più che degne ma non di primissimo piano.
Non vi è un solo leader o ex di partito, unica eccezione: Peppino Saragat, ma tanto tempo fa, che sia riuscito a soggiornare nel palazzo che ospitò Papi e Re. E non per caso. Comunque D’Alema e Berlusconi hanno il diritto il dovere di provarci come tanti che li hanno preceduti. Se il secondo è al lavoro da un po’, riuscendo, nella sua felice carriera di Araba Fenice, a calzare l’abito dello statista pronto a fornire saggi consigli, essendo magari in difficoltà con gli esempi, a quei due discoli del centrodestra di Salvini e Meloni. E vantare poi le sue rassicuranti relazioni con i leader dell’Europa che conta. Intanto è sempre lì e hai visto mai. In questi giorni poi, ha tirato fuori dal cilindro il coniglio che potrebbe aiutare il governo della Regione Lombardia a uscire dal cul d sac di impopolarità e inefficienza in cui si è infilato nella gestione della pandemia e dei vaccini Covid e non, con quel gaffeur di Giulio Gallera, ormai ex assessore al Welfare.
Al suo posto, riesumata dal soffio vitale di Silvio, andrà Letizia Moratti che se non ci riesce lei a raddrizzare la baracca, magari poi traslocando dalla poltrona di Gallera a quella di Attilio Fontana, il prossimo giro, vuol dire che non può farcela nessuno. Anche Salvini ha dovuto abbozzare di fronte al prestigio della scelta del Cavaliere e al colore della casella in quota Forza Italia che se ancora tira il fiato lo deve solo al suo unico leader.
Massimo D’Alema, invece, è entrato e piedi uniti nel piatto della crisi nascente del governo Conte due con un’intervista un po’ surreale a “La Repubblica”, in cui l’ex presidente del Consiglio butta solo qualche frase tirata fuori con le tenaglie, ma riesce a lanciare parecchi messaggi e far capire che è tutt’altro dedito solo a produrre uno dei, parole sue, “dieci migliori spumanti del mondo”. Il primo input, il più rumoroso è l’ennesima carineria per colui, Matteo Renzi, che l’ha rottamato: “Non si manda via l’uomo più popolare del Paese per volontà di quello meno popolare”. Sulla prima parte dell’affermazione ci sarebbe da discutere, meno sulla seconda. Ma l’importante è il messaggio. Così come quello, fatto dire all’intervistatore per cui uno dei più ascoltati consiglieri di Conte sarebbe proprio l’ex leader Massimo. E infine, tutta la sprezzante ironia di cui è capace D’Alema nella frase finale: “Tra un po’ vado in Africa”, che echeggia quella pronunciata qualche lustro fa da un altro “amico” di Massimo, Walter Veltroni che è ancora tra i piedi sia pure in altre vesti ma pronto anche lui a indossare la pettorina e scattare ai blocchi di partenza della maratona qurinalizia.
Insomma, a prescindere da quale che sia il destino del governo che comunque influirà sulla scelta per la carica più alta dello Stato, ne vedremo delle belle nei prossimi mesi. Con la concreta possibilità che, poi, a spuntarla sia il solito esponente che nell’immensa spiaggia della politica non occupa proprio una delle prime file degli ombrelloni. Nell’attesa andiamo al Massimo e al Silvio. E vogliamo proprio vedere, come dice la canzone di Vasco Rossi, “come va a finire”.
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