Il regime è come il diavolo. La beffa più grande che abbia mai fatto è convincere il mondo che lui non esiste. E così, adesso, il Grande Evento è diventato Storia. Leggenda. Epopea. Parabola. Mito. Il concerto, anzi, la madre di tutti i concerti, il concerto finale, il concerto assoluto, il concerto in quanto tale è uscito dalla dimensione della cronaca per diventare qualcosa di altro. Un motore immobile, un monolito, un archetipo, un testo sacro al quale tutti, ma davvero tutti non possono non abbeverarsi e non trarre lezioni, morali, insegnamenti. Perché, diciamoci la verità, da ora in avanti non potremo non dirci vascomani.
Sono passati pochi giorni, ma il concerto di Vasco Rossi viaggia già su questi binari. Ed è così e non c’è verso che non possa che essere così. Ogni lettura, ogni commento, ogni analisi, ogni retroscena, ogni testimonianza di vita, aneddoto, cameo, pagina di diario vola coesa, adesa e protesa verso questa lettura, unica interpretazione del pensiero unico dell’unico artista che sappia leggere la realtà fragile e malinconica di questi anni privi di bussola. Lo sfoglio dei giornali è impressionante. Assoluto. Aprioristico. Totalitario. E Vasco di qua e Vasco di là e mai un happening di queste dimensioni e mai un’esplosione di colori così condivisa contro la paura e la voglia di stare insieme e guarda queste tre belle generazioni legate a filo doppio dal vero poeta della modernità, altro che Dylan, e l’onda montante dei ricordi e la nostalgia canaglia e la vita spericolata e le cinque del mattino e l’Albachiara e fai girare la canna e che rock e che accordi e che testi e bla bla bla. Ogni riga una sbrodolata, ogni frase una colata di retorica, ogni superlativo un giovanilismo.
Ma è così? Ma è davvero è così? Ma dove starebbe tutta questa qualità musicale, tutte queste sferzate urticanti e antisistema del Grande Vate? E, soprattutto, dove starebbe tutto questo anticonformismo? Non sono quelli tutti temi già usurati da mezzo secolo e che avevano un senso negli anni Sessanta, quando la società uscita dalla seconda guerra mondiale e irreggimentata dentro strutture sociali rigidissime e ideologiche è stata frantumata dalla nuova generazione sull’onda della protesta studentesca e della liberazione sessuale? Non c’è già tutto nella beat generation? Ma “On the road” non è del 1957, un miliardo di anni fa? Che c’è di nuovo? E qui scatta la prima obiezione: sai, mi ricorda i miei sedici anni. D’accordo, le memorie sono sacre, ma non c’è nulla di più risibile che affibbiare un valore musicale altissimo a un soggetto che non ne ha, solo perché è legato ai propri ricordi adolescenziali. Che ragionamento. Anche chi scrive questo pezzo, che è stato ragazzo negli anni Ottanta, se sente “Into the groove” gli si attorciglia lo stomaco perché dai meandri affiorano la Costa Brava, le prime vacanze senza i genitori, gli amici, le biondine tedesche, i riti di passaggio, timori, tremori, umori, odori, lacrime e fanfaluche, ma di certo non pensa che solo per questo Madonna valga Ella Fitzgerald e comunque anche a quei tempi ascoltava i Cure, gli Smiths e i Talking Heads. Mica Baglioni.
Eppure, la cosa più grave non è neppure questa. Quanto invece la sparizione del dissenso. Non esiste dissenso su Vasco. Lui è. Lui incombe. Lui veleggia nell’aere sempiterno, uno e trino, purissimo e immacolato. De Andrè - che ne vale cento - aveva i suoi detrattori (troppo colto, troppo elitario, troppo intellettuale). Battisti - che ne vale duecento - aveva i suoi (troppo disimpegnato, troppo pop, troppo di destra). Anche Springsteen (ed evitiamo paragoni, per cortesia) ha quelli a cui non piace. Anche quei geni dei Radiohead. Così come tutti, Beatles e Mozart compresi. Vasco no. Non c’è uno spiffero, non si ode un suono, non si sente un refolo. Una sola soffocante gorgiera di assenso. Odi. Rime. Sonetti. Madrigali. Messe cantate. E fa impressione vedere queste orde di medici, commercialisti, dirigenti, quadri aziendali trasfigurarsi in un’ordalia maledettista mentre tutto il loro (e il nostro, ovviamente) percorso esistenziale è segnato dalla sudditanza nei confronti di ferree leggi sociali. Invece no. Tutti bohémien, tutti ubriaconi, tutti spinellari, tutti tiratardi. Tutti anticonformisti. Tutti e quanti i duecentoventimila di Modena e tutti gli altri milioni di ultras sparsi per il globo terracqueo. Tutti anticonformisti. Tutti anticonformisti, quindi tutti conformisti. L’anticonformismo è la nuova frontiera del conformismo, la trappola con la quale il regime ingloba, rumina, sminuzza, tritura il dissenso e lo vomita bello e pronto per farne il pupazzo frondista della dittatura del politicamente corretto. Vedi come sono democratico? Permetto anche a te di dire che tu sei diverso, che voi siete diversi, che tutti sono diversi. Tutti diversi, quindi tutti uguali.
Ma poi ribellione di che, anticonformismo di che? Che regole vuoi infrangere se nulla è vietato, se tutto è già permesso? Questi anni di vaselina hanno sancito la sconfitta della profezia di “1984” e il trionfo di quella del “Il mondo nuovo”. Il vero regime non è quello che vieta tutto, come nel romanzo di Orwell, perché se tu vieti, la natura umana tende a infrangere il divieto, ma quello che dà tutto, come in quello di Huxley. Ti sommergo di cose. E tutto è libero. E tutto è gratis. Telefonare, comunicare, condividere, postare, filmare, insultare, sgorgare qualsiasi pulsione nella cloaca del web, politici maiali, sesso estremo, vacanze intelligenti, gattini&bambini, macachi sul triciclo, stalker, lancio del nano, eutanasia, premi Nobel in mutande, calciomercato, scambisti, fisica nucleare, reality, droghe sintetiche, prepensionati dell’Isis, drag queen, torte in faccia. Ogni cosa è libera, tutto è disponibile, tutto è permesso nel nuovo ordine mondiale.
E allora, se non c’è più niente da infrangere, il vero anticonformismo andrà cercato altrove. Magari ricordandosi che il più grande anticonformista italiano degli ultimi due secoli andava a dormire con le galline e non è quasi mai uscito da Recanati. Altro che il Roxy Bar di noi borghesi piccoli piccoli.
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