Per oltre un anno, e anche dopo la sentenza di primo grado - che risale al febbraio del 2011 -, la città si è spaccata, divisa tra quanti (la maggior parte) sostenevano che l'imputato fosse una sorta di santo tradito, un pezzo di ragazzo che mai sarebbe stato in grado di torcere un capello a chicchessia e che in qualche misura il "martirio" del suo nemico fosse conseguenza diretta della sua esasperazione, del suo dolore, e la risicatissima minoranza di chi invece invocava una pena certa, esemplare. Per oltre un anno si sono descritti e confusi i ruoli, finendo per attribuire a Giacomo Brambilla responsabilità che l'inchiesta ha invece escluso. Oggi che tutto è finito possiamo parlarne e scriverne con maggiore serenità, e senza nasconderci dietro alle parole.
Di Giacomo, che era soprattutto un padre di famiglia, un piccolo imprenditore che come molti altri tirava la carretta, si è detto di tutto: che, da poco di buono, amava girare armato, che aveva modi violenti, che aveva prestato denaro a strozzo, e che aveva ridotto Alberto sul lastrico. Di tutto ciò, e oggi è giusto ribadirlo, non c'è traccia in alcun riscontro processuale, né meno che mai negli atti della indagine preliminare. È vero sì che Brambilla diede dei soldi ad Arrighi, ma non c'è la minima evidenza che ne abbia preteso in cambio tassi usurari.
Ecco perché, in concomitanza con la lettura di una sentenza da ritenersi praticamente definitiva, è giusto che qualcuno si ricordi di Brambilla, di sua moglie, dei suoi genitori e di quel suo figlio, oggi un ragazzino, costretto a crescere senza un padre. È il giorno della riconoscenza, il giorno per riflettere, tirare una volta per tutte le fila di questa storia surreale e rimettere ciascuno al proprio posto, protagonisti e coprotagonisti, in qualche caso determinanti nonostante le loro posizioni apparentemente marginali.
Le cose sarebbero andate diversamente se per esempio il suocero di Arrighi, quell'Emanuele La Rosa uscito dal processo con un patteggiamento a tre anni mezzo, lo avesse indotto a riflettere, avesse cercato di fermarlo o avesse chiamato la polizia anziché aiutarlo a far sparire il cadavere di Giacomo. È vero, è il senno di poi, ma è anche il conto della giustizia, che ieri ha compiuto il suo corso.
Oggi che i ruoli di vittima e carnefice sono incontrovertibilmente marcati, resta il dolore di quanti hanno conosciuto i protagonisti di questa storia, di quanti l'hanno seguita da vicino, così come resta la solitudine di Arrighi che ieri, chiuso in quell'aula grigissima di fronte al suo giudice, non ha avuto accanto nessuno, non la moglie, non un fratello, non un amico, se non forse l'avvocato che in questi due anni ha tentato di tutto per consentirgli di dribblare il destino. Arrighi se ne è andato con gli occhi sbarrati, stretto tra gli agenti della penitenziaria percorrendo in manette uno di quei corridoi interminabili del tribunale di Milano. Solo con se stesso, forse la condanna peggiore.
Stefano Ferrari
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