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Domenica 08 Agosto 2010
Se telefonando... risponde Testori
L'aspirante poeta compose per gioco il numero dello scrittore e la sua vita cambiò
Prosegue l'appuntamento settimanale con alcuni protagonisti del Novecento, narrati da quattro "firme" (la scrittrice Laurana Berra, il critico Fulvio Panzeri, il giornalista Giorgio Gandola, il medico e umanista Livia Porta), che ci terrà compagnia per tutto il mese di agosto.
In questo caso a perfettamente ragione Mina, quando canta «Se telefonando…». Possono succedere molte cose, complice il caso. E ripensandoci si resta decisamente stupiti di come una cornetta alzata, senza nemmeno pensarci più di tanto, possa diventare un momento fondamentale della propria vita. Questo accade in gioventù, quando i pensieri e le azioni sono più libere, meno ponderate e allora forse i sogni riescono a diventare più forti della realtà.
Non so se sia così anche per i ragazzi di oggi, lo era per noi quarant'anni fa, negli anni Settanta, quando il senso della cultura, del leggere, del voler capire era più solido, quando c'erano ancora grandi maestri che inconsapevolmente, anche solo durante un'intervista, nella loro fragile vecchiaia, quando la loro scrittura sembrava toccare il vertice, diventavano "maestri" anche se noi non riuscivamo a cogliere tutta la forza dei loro discorsi. Allora si percepiva questa grande anima, segnata dalla vita artistica, che diventava una specie di nutrimento.
Ero onnivoro lettore sia di libri che di recensioni, anche se di anni ne avevo pochi, credo già a diciassette, diciotto anni leggevo sempre le critiche sul Corriere della Sera e su Tuttolibri, compravo tutti i libri tascabili dei miei autori preferiti, ne scoprivo altri. Mi piaceva molto Cassola e mi intrigava il mondo della terra, così sensuale, in Comisso, mi divertivano le storie di Piero Chiara. Leggevo di tutto da Raffaello Brignetti a Manlio Cancogni, da Ennio Flaiano a Lalla Romano. Avevo scoperto anche Testori e la sua Milano degli anni Cinquanta mi aveva affascinato e in qualche modo racchiuso in sé. Mi piacevano certi scorci notturni, quel mondo di periferia, tra fatiche e miserie. Avevo iniziato a leggere tutto quello che trovavo di suo. Sul Giorno una recensione di Giuliano Gramigna a Passio laetitiae et felicitatis, romanzo che era uscito nel 1975, mi aveva incuriosito moltissimo e avevo messo da parte i soldi per comprare il libro. Lo avevo divorato, nonostante quella scrittura che mischiava latino, spagnolismi, parlata dialettale lombarda, una lingua tutta reinventata da Testori, e mi ero immedesimato in quella storia che sembrava secentesca, ma che raccontava la contemporaneità. Mi aveva colpito il fratello della disperata suora di Lasnigo, Felicita, la protagonista del libro, nella sua infelicità, un fratello che muore schiantandosi con la motocicletta e che ritorna spesso nei pensieri della suora. E mi piaceva quella scrittura sporca, poco convenzionale, molto lombarda, perché in quella storia riconoscevo le mie erbe, la mia terra, i miei luoghi.
Due anni, dopo, nel 1977, a fine estate, dopo la Colonia che aveva organizzato l'Oratorio e dove ero stato animatore con i ragazzini, alcuni di noi si erano fermati a riordinare la casa. Era una domenica piovosa e uggiosa e mentre si stava aspettando di partire, qualcuno aveva deciso di fare degli scherzi telefonici. Io ero un po' defilato, quel gioco non era la mia passione. E poi sono un po' timido al telefono.
Ad un certo punto mi tirano la guida telefonica e mi dicono di aprire a caso. Lo faccio di colpo e scorro l'elenco dei nomi. Ad un certo punto vedo Testori e dico ad alta voce: «Ma è il mio scrittore preferito!!!». Sapevo che abitava a Novate. Gli altri non hanno problemi: «Chiamalo, vediamo se risponde». Io ho un po' di titubanza. «Che cosa gli dico?». Gli altri incalzano. Telefono. Risponde proprio lui Testori, con la sua voce roca, che avevo sentito in televisione, quando era intervenuto ad una trasmissione del grande Leo Ferrè, cantautore che amava moltissimo. Ora frammenti di quella trasmissione si trovano su You Tube e fa un certo effetto rivederli.
Gli dico che sono un suo ammiratore, che avevo letto "Passio Laetitiae et felicitatis" e che mi era piaciuto moltissimo. Lui è stato molto gentile, mi chiede che cosa faccio, se scrivo e mi invita a portargli qualcuna delle mie poesie nel suo studio di Via Brera a Milano.
Non ci potevo credere che una telefonata fatta per caso, mi dava l'occasione di far leggere i miei versi ad uno degli scrittori allora più conosciuti in Italia.
Gli ho portato più di una raccolta in via Brera: lui era giudice severissimo. Se sentiva che nelle poesie c'era qualcosa di falso, di costruito, era irremovibile. Prendeva e stracciava, senza farsi scrupoli. Non gli importava di far pubblicare un libro, ma lavorare sui testi.
Però teneva in conto il lavoro degli altri. O almeno posso dire che il mio gli è stato molto "caro" visto che, riordinando l'archivio, Alain Toubas, l'erede, un giorno mi telefona e mi dice che mi deve restituire un po' di cose mie che ha trovato tra le carte di Testori. Quando la vado a prendere, mi accorgo che non è una semplice busta, ma un grosso pacco. Lo apro e vedo tutte le raccolte che negli anni gli ho dato, che magari non ho più nemmeno io. Mi commuovo, anche al pensiero di quanto le ritenesse importanti, al punto di conservarle, lui che non aveva per niente cura del suo archivio.
Quando, nell'estate 1979, dopo aver vinto il premio Gerla d'Oro per la poesia inedita, pubblica le mie poesie in un inserto di quattro pagine, su Il Sabato accenna a questi particolari e cita anche le raccolte di poesia, quando scrive: «Ebbi subito la certezza che nella poesia di Panzeri, nella sua anima, si muovesse, proprio come in un prato, la fertilità vera; la fertilità, intendo, della poesia. Lo incoraggiai. Così di tanto in tanto ricevetti da lui nuove poesie, in forma, quasi sempre, di raccolte organiche; e sempre in una progressione continua di quello che m'era parso il lombardissimo centro della sua ispirazione: la vita intesa, vissuta, partecipata come atto totale e corale; come atto, appunto, religioso...».
È stato un grande, vero maestro che è arrivato nella mia formazione, per caso, ma non "a caso". Ha sempre considerato gli altri alla pari, attento al loro lavoro e ai loro giudizi, mostrando in molti casi anche l'aspetto fragile di una personalità forte come la sua. Come quando, nel 1986, un giorno in studio mi dice che è molto preoccupato, che ha un problema. Gli chiedo qual è e lui dice che non sa a chi dare da ribattere il dattiloscritto con le correzioni a mano di "In exitu".
«Sai, è troppo forte, troppo delicato il tema».
Ci penso su un po' e gli propongo: «Potrei ribatterlo io».
Accettò subito e ne fu molto sollevato. Allora non c'erano i computer e quando si sbagliava un foglio a macchina si doveva ribattere. Riscrivere "In exitu" è stata un'esperienza dolorosa, perché si viene trascinati nella terribilità della storia, ma folgorante. Anche i grandi scrittori a volte di fronte a piccoli ostacoli vanno in tilt.
Fulvio Panzeri
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